Sigla: Mic. Sta per Misery Index Confcommercio. Non ha bisogno di traduzione. Si può scegliere tra «miseria» o «povertà», però è davvero solo questione di sfumature. Semantiche, non di contenuti. Che sono invece netti e drammatici.
L’Italia ormai entrata nel sesto anno di crisi è un Paese in cui le persone «assolutamente povere» stanno per salire tra i 3,8 e i 4,2 milioni. Erano meno di 2,3 milioni nel 2006.
La differenza sarebbe in sé sufficiente a raccontare quanto sia tragico il quadro, quanto duro il conto pagato alla più lunga e grave recessione mai attraversata dal 1929. Ma ancora peggiore è la velocità di avvitamento della spirale. È a fine 2007 che si abbatte la prima ondata. È da allora, che si gonfia l’esercito dei senza lavoro, dei senza reddito, dei disperati. È adesso che la situazione sta per esplodere. Il Mic, il nuovo indice che Carlo Sangalli ha presentato ieri a Cernobbio nella prima giornata del Forum Confcommercio-Ambrosetti, dice che in cinque anni l’Italia ha «prodotto» 615 nuovi poveri ogni giorno. Questa però è soltanto la media. E la media è per definizione piatta. Mentre qui c’è una curva che sale, sale, sale. Senza che, ancora, al peggio si veda un tetto: «L’uscita dal tunnel — per dirla con il presidente dei commercianti — resta un miraggio».
Può essere (qualcuno certo glielo contesterà) che Sangalli sia eccessivamente pessimista. Magari per supportare le richieste di una categoria alle prese con le pesanti conseguenze del crollo dei consumi. E d’altra parte è proprio questo — il polso diretto sulle capacità di spesa degli italiani — che fa comunque di Confcommercio un osservatorio da non sottovalutare. Perché è da lì, che l’ufficio studi dell’associazione ritocca in negativo tutte le stime fatte appena cinque mesi fa. Prevedevano per il Prodotto interno lordo un calo 2013 dello 0,8%: ora siamo a —1,7%. I consumi avrebbero dovuto perdere un ulteriore 0,9%: rivisto a —2,4%. Risultato: il Paese che da fine 2007 ha bruciato oltre 100 miliardi di Pil — saldo tra il crollo da 140 miliardi della domanda interna e i 40 di incassi dall’export — ha fatto un salto all’indietro nel tempo di 13 anni. Siamo tornati dov’eravamo a inizio 2000. E davanti, ripetono in Confcommercio, «non abbiamo pochi di mesi di gravi difficoltà: abbiamo ancora un anno almeno». Poi si può stare a discutere su dove stiano le cause. Se sono i consumi che vanno rilanciati (ovvia tesi dei commercianti, con Sangalli che ribadisce il no al «mortale aumento dell’Iva in un’estate fiscalmente rovente» e critica ancora i «tempi lunghi» previsti per il pagamento dei debiti dello Stato verso le aziende). Oppure se, prima di tutto, non occorra pensare agli investimenti (tasto sul quale insiste, in una tavola rotonda in cui i banchieri devono difendersi dall’accusa di pensare «solo ai grandi gruppi», il numero uno di Intesa-Sanpaolo Enrico Cucchiani). Su un dato però tutti — compresi il ministro del Lavoro Elsa Fornero e i suoi predecessori Maurizio Sacconi e Tiziano Treu — la pensano allo stesso modo: gli italiani, con gli spagnoli in fondo alla classifica degli occupati (appena il 37,9% della popolazione), non lavorano meno degli altri. Al contrario: il paradosso è che lavorano molto più di francesi o tedeschi. Ma il gap di produttività era e rimane enorme. E l’indice, a Cernobbio, finisce sul nodo eterno della flessibilità.
Non si nutrono, in platea e sul palco, grandi speranze sul fatto che il Parlamento in carica metta la questione tra le priorità. Ma con i «poveri assoluti» avviati oltre quota 4 milioni «non si può più aspettare», insiste Sangalli. E dunque: sarà vero che il governo Monti «ha fatto quello che ha potuto in un anno difficile», come rivendica Fornero, però ora siamo «oltre», ora «la politica tragga le conseguenze del voto, si assuma le responsabilità del cambiamento chiesto dai cittadini e dia un governo al Paese». In caso contrario rischiamo la nera predizione del leader Cisl Raffaele Bonanni: «Stanno facendo assomigliare l’Italia del 2013 a Weimar del 1920».
Raffaella Polato – Corriere della Sera – 23 marzo 2013