La riforma della Pa varata due giorni fa dovrebbe percorrere il suo primo tratto verso l’attuazione in tandem con l’apertura della trattativa sul contratto. Come è noto la leva salariale non si è mai rivelata lo strumento più efficace per favorire l’innovazione nelle amministrazioni o premiare il merito e la produttività. Almeno a partire dalla seconda privatizzazione del pubblico impiego, cioè dai contratti siglati per il quadriennio normativo 1998-2001.
Un’analisi Aran sul decennio 2000-2009 conferma che gli aumenti retributivi realizzati sono stati solo in minima parte collegati a incrementi delle voci stipendiali legate alle verifiche dei risultati conseguiti dalle amministrazioni. E anche la Corte dei conti ha sempre lamentato l’uso distorto delle risorse destinate al premio della produttività; fondi sempre usati per elevare i trattamenti fissi e continuativi. Sono tante le ragioni che stanno dietro a questi insuccessi e il dibattito tra i policy makers non si è interrotto neanche dopo il blocco dei contratti (2009) imposto dalla crisi fiscale dello Stato. Con la legge di stabilità 2015 si capirà se un margine esiste davvero per il rinnovo anche economico e non solo della parte normativa del contratto ma la storia ci dice, appunto, che il nodo delle risorse non è il solo da sciogliere. Serve un ripensamento complessivo sulla retribuzione dei dipendenti pubblici. In questa sede non entriamo nel merito della proposta avanzata dal Governo di agganciare i premi di risultato dei dirigenti all’andamento del Pil. Suggeriamo invece un altro obiettivo: si utilizzi questo passaggio per pensare anche a un riordino dei comparti di contrattazione, per passare dai 16 attuali a 4 o 5. È una chance per tutti, che può ridare forza ed efficacia alla contrattazione collettiva.
Davide Colombo – Il Sole 24 Ore – 15 giugno 2014