«In quattro mesi c’è stato un significativo incremento dei contratti a tempo indeterminato mentre si sono ridotte le tipologie di lavoro precario. Un fatto positivo perché la precarietà crea svantaggi non solo alle persone, ma a tutto il sistema economico». Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, analizza i dati sulle attivazioni dei contratti di lavoro di aprile, diffusi ieri dal suo dicastero, e vi vede i segni di una «continuità» di risultati positivi che il Jobs act sta determinando grazie alla diffusione dei nuovi «contratti a tutele crescenti»: contratti a tempo indeterminato, dove però è più facile licenziare perché non c’è più l’articolo 18.
Prima del Jobs act, i rapporti di lavoro a tempo indeterminato rappresentavano il 15% circa di tutte le attivazioni (15,7% ad aprile 2014). Adesso siamo arrivati al 22,7%. Fin dove si può salire?
«Premesso che i nuovi contratti a tempo indeterminato garantiscono tutte le tutele che i contratti precari non prevedono, sette punti sono già un grande passo in avanti. Credo che arrivare entro l’anno al 25% dei contratti a tempo indeterminato sarebbe un ottimo risultato. Significherebbe un contratto stabile ogni quattro attivati. Prima era uno su sei».
Per ora la stabilizzazione non si è tradotta in un aumento degli occupati. Quanto bisogna aspettare?
«Dipende dal ritmo della crescita dell’economia. Per ora le aziende stanno richiamando al lavoro le persone che erano in cassa integrazione o in contratto di solidarietà. Lo confermano i dati Inps del primo quadrimestre. Il bacino si sta riducendo. Non dimentichiamo che nel 2013 abbiamo perso 200 mila posti di lavoro. Nel 2014 la situazione si è stabilizzata. Quest’anno, anche sulla base delle previsioni dei maggiori istituti, credo che si possa puntare a un aumento dell’occupazione di 100-150mila posti».
La legge delega sul Jobs act è stata attuata a metà, nella parte che introduce più «flessibilità in uscita» (licenziamenti). Manca l’altra gamba della flexicurity: gli ammortizzatori sociali e le politiche di ricollocamento.
«Intanto, sono già attivi i nuovi ammortizzatori per chi perde il lavoro, che durano più a lungo e coprono più persone. Dopo i 4 decreti legislativi già approvati, il governo varerà entro i primi di giugno altri 4 decreti, completando così l’attuazione del Jobs act. Uno riguarderà l’Agenzia unica sulle ispezioni, perché non è possibile che un’azienda subisca, magari in momenti diversi, i controlli degli ispettori del ministero, di quelli dell’Inps e di quelli dell’Inail. Un altro decreto avrà come obiettivo l’universalizzazione degli ammortizzatori sociali. A regime vorremmo estendere i sostegni ai lavoratori delle imprese con almeno 5 dipendenti».
Ma come farete, se la delega non prevede aumenti della spesa pubblica?
«Puntiamo da un lato su un meccanismo per cui le aziende che più utilizzano gli ammortizzatori più contribuiscono, una sorta di bonus malus. E dall’altro sul fatto che le aziende che finora non hanno pagato contributi per gli ammortizzatori, ma in questi anni ne hanno usufruito attraverso quelli in deroga finanziati dalla fiscalità generale, comincino a contribuire».
Gli altri due decreti?
«Riguarderanno le semplificazioni normative e le politiche attive con al centro la “condizionalità”: se uno prende un sussidio non deve restare a casa ma deve essere impegnato nel ricollocamento al lavoro. Detto questo, siamo in una transizione, con la riforma costituzionale che prevede di riportare al centro competenze ora assegnate a Regioni e Province. È quindi necessario un accordo tra le parti, soprattutto per salvaguardare e rafforzare i centri per l’impiego».
Passiamo alle pensioni. Lei ha proposto più volte la flessibilità in uscita, cioè la possibilità di lasciare il lavoro prima di quanto previsto dalla riforma Fornero in cambio di una pensione più leggera. Adesso è stato il premier Matteo Renzi a rilanciare il tema. Che cosa state preparando?
«La flessibilità in uscita è importante non solo per rimuovere alcuni elementi di rigidità del sistema previdenziale, ma anche per favorire l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, in questi ultimi anni oggettivamente limitato anche dall’allungamento dell’età pensionabile. Sono le stesse aziende che ci richiedono questa sorta di staffetta generazionale. Quanto alle proposte ne parleremo a settembre con la legge di Stabilità, in base alle risorse disponibili».
Ce ne saranno, dopo la sentenza della Consulta sulle pensioni e il no dell’Ue sul reverse charge dell’Iva? Il governo, tra l’altro, vuole intervenire anche sulla povertà.
«Sì, la lotta alla povertà è una priorità, perché con la crisi le diseguaglianze sono aumentate. Metteremo a disposizione tutte le risorse del ministero più i fondi dei piani europei per l’inclusione, ma so già che non basteranno. Su questo dovremo concentrare gli sforzi nella legge di Stabilità».
Giorni fa ha ricevuto l’Alleanza contro la povertà, che ha messo a punto una proposta di reddito di inclusione che inizialmente costerebbe 1,8 miliardi. È fattibile?
«È una proposta che assomiglia molto al Sia, il sostegno per l’inclusione attiva che stiamo sperimentando. Si muove infatti sull’idea, che condivido, della presa in carico: non un trasferimento monetario fine a se stesso, ma uno strumento per aiutare a uscire dalla povertà, puntando sul lavoro. Mi impegnerò al massimo per trovare le risorse necessarie».
Renzi ha lanciato anche il tema del sindacato unico. Lei che dice?
«La semplificazione della rappresentanza è un tema reale, che investe sia i sindacati che le associazioni datoriali. Se in Italia abbiamo molte associazioni per ogni categoria è soprattutto per ragioni di ordine culturale e politico, come dimostrano i tre filoni di derivazione: cattolico, socialista e laico. Oggi è legittimo chiedersi se le ragioni di queste divisioni siano tuttora valide».
Farete una legge sulla rappresentanza sindacale?
«Credo che ogni organizzazione dovrebbe autoriformarsi, senza bisogno di interventi esterni della legge. Che invece può essere di supporto o disciplinare alcuni aspetti, per esempio la trasparenza e la redazione dei bilanci ».
Ci sarà una legge per limitare ancora lo sciopero nei servizi pubblici essenziali?
«È una materia delicata. Il diritto di sciopero va salvaguardato, ma va gestito limitando i disagi per i cittadini. Una nuova legge? Intanto si usi bene quella che abbiamo, in modo responsabile».
Il Corriere della Sera – 26 maggio 2015