Pochi giorni dopo aver negato la risarcibilità del danno alla professionalità in un caso di mobbing (sentenza 16690/15, commentata sul Sole 24 Ore dello scorso 13 agosto), con la pronuncia 16896/15 la Cassazione conferma invece il risarcimento riconosciuto ad un lavoratore in relazione al demansionamento subìto.
Per quanto si dirà, la contraddittorietà tra le due sentenze è solo apparente. Nella fattispecie esaminata, un dirigente rassegnava le dimissioni per giusta causa in conseguenza del demansionamento di cui era stato vittima per oltre 3 anni.
Nei giudizi di merito, accertata la sussistenza dell’illecito comportamento datoriale (consistito nella progressiva sottrazione al lavoratore degli incarichi di alto contenuto professionale in precedenza ricoperti e financo in un periodo di completa inattività), la società veniva condannata alla restituzione dell’importo trattenuto a titolo di mancato preavviso, nonché al pagamento dell’indennità di preavviso e al risarcimento del danno professionale, liquidato in misura pari al 40% della retribuzione percepita dal dirigente durante il periodo di dequalificazione.
La società ricorreva in cassazione censurando la pronuncia d’appello soprattutto nella parte in cui era stata accolta la domanda risarcitoria in assenza di «prova del danno da demansionamento, riconosciuto in base a fatto notorio e desunto da criteri di comune esperienza».
La Cassazione ha respinto tale doglianza, ribadendo che in presenza di specifiche allegazioni fattuali offerte dal lavoratore circa la sussistenza del demansionamento – allegazioni che nel caso di specie erano state confermate dai testimoni escussi nelle precedenti fasi del giudizio – deve ritenersi provata, anche per presunzioni, l’esistenza di un danno alla professionalità.
Il richiamo, sul punto, è alla nota sentenza della Suprema Corte a Sezioni Unite n. 6572/06, ove è stato precisato che in tema di danno alla professionalità «all’onere probatorio può assolversi attraverso tutti i mezzi che l’ordinamento processuale pone a disposizione: dal deposito di documentazione alla prova testimoniale su tali circostanze di congiunti e colleghi di lavoro. Considerato che il pregiudizio attiene ad un bene immateriale, precipuo rilievo assume rispetto a questo tipo di danno la prova per presunzioni … cui il giudice può far ricorso anche in via esclusiva per la formazione del suo convincimento, purché, secondo le regole di cui all’articolo 2727 del codice civile, venga offerta una serie concatenata di fatti noti, ossia di tutti gli elementi che puntualmente e nella fattispecie concreta (e non in astratto) descrivano: durata, gravità, conoscibilità all’interno e all’esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, frustrazione di (precisate e ragionevoli) aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti la avvenuta lesione dell’interesse relazionale, gli effetti negativi dispiegati nella abitudini di vita del soggetto» .
In conclusione, il danno alla professionalità può certamente essere oggetto di risarcimento, a condizione però che il lavoratore fornisca al Giudice tutti gli elementi di fatto idonei a dimostrare l’esistenza del pregiudizio lamentato.
Alberto Testi – Il Sole 24 Ore – 21 agosto 2015