Alessandro Barbera. Per afferrare il punto occorre partire dalle ultime raccomandazioni della Commissione europea. Non un pezzo di carta qualunque, il documento in base al quale il governo è tenuto a impostare la successiva legge di bilancio. Nonostante la riduzione dell’Irap, nonostante la decontribuzione triennale per i nuovi assunti a tempo indeterminato partite quest’anno «l’onere fiscale sul lavoro e sul capitale è molto elevato rispetto agli altri Stati membri».
Le ultime stime dicono che l’aliquota è stata pari al 42,8 per cento, la più alta dell’Unione e ben al di sopra della media del 36,1. Il cuneo fiscale – ovvero la differenza fra quanto paga in tasse il datore di lavoro e lo stipendio dei suoi dipendenti – resta fra i più alti, e lo scarto con i partner nel frattempo è sceso solo «di un quarto». Gli ultimi dati sulla crescita nel secondo trimestre (+0,2 per cento) dicono che le cose vanno meglio, ma molto meno di quel che è necessario per poter dire che la scommessa è vinta, e rivendicare di fronte agli italiani che la ripresa vista finora è merito del governo, non di Mario Draghi. Se non bastasse a scombinare i piani ci si è messa la svalutazione dello yuan, che potrebbe spingere al ribasso la previsione di un già timido +0,7 per cento sulla crescita dell’intero 2015. La promessa del premier di abbattere l’Imu sulla prima casa è popolare e farà recuperare voti a primavera, ma all’economia darà poco. Non c’è bisogno di fare gli indovini, basta riguardare l’effetto dei due precedenti intervento voluti da Berlusconi: prossimi allo zero. Dunque?
La chiave per ottenere un aumento significativo della crescita è sempre la stessa: ridurre il peso fiscale sulle imprese o, per dirla più chiaramente, rendere l’Italia più competitiva agli occhi di chi ha soldi e energie per nuovi investimenti. Fra Palazzo Chigi e Tesoro si arrovellano già da qualche settimana. Per le decisioni c’è ancora qualche settimana (la legge di Stabilità deve essere depositata in Parlamento entro il 15 ottobre) ma su un punto sono tutti d’accordo: nel 2016 occorre una nuova spinta alle assunzioni. Non solo al Sud (esistono da 25 anni, non hanno cambiato nulla), non a chi fa certi investimenti rispetto ad altri, ma un nuovo, robusto taglio ai contributi sul lavoro per il numero più ampio possibile di imprese.
Facile a dirsi, difficile a farsi. Confermare la decontribuzione triennale sui nuovi assunti costa altri due miliardi nel 2016, fra i quattro e i cinque nel 2017 e 2018. Non è poco ma in fondo – ragionano gli uomini di Renzi – non sarebbe nemmeno abbastanza. Tagliare qualche punto di contribuzione non solo ai nuovi assunti, ma a tutti, sarebbe ancor più costoso. Oggi l’aliquota media è del 33 per cento, ogni punto in meno costa fra i due e i tre miliardi. Ma perché il taglio sia visibile non sarebbero sufficienti nemmeno tre punti. Ecco perché a Palazzo Chigi con la testa sono già tornati al punto di partenza: tutto sommato meglio la decontribuzione per i nuovi contratti. Ma perché lasci il segno, perché produca risultati migliori, perché dia più della stabilizzazione dei dipendenti precari, quella misura occorrerebbe renderla strutturale. «Per diventare più competitivi abbiamo bisogno di cose semplici, chiare e durature», dicono dal governo. Confindustria non chiede altro. I calcoli sono sul tavolo di Renzi: una decontribuzione triennale per tutti i nuovi assunti e per sempre costerebbe a regime, ovvero in cinque anni, fra i 13 e i 15 miliardi di euro. Per finanziarla ci sono come sempre tre possibilità: un taglio monstre della spesa (per Palazzo Chigi impossibile), più tasse (lunare), o il sì di Bruxelles a un aumento del deficit vicino al famigerato tre per cento e una nuova clausola di flessibilità. Obiettivo difficile, ma non impossibile. Che ne penseranno a Berlino?
La Stampa – 17 agosto 2015