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«Costi politica. Un taglio serio». «Tesoro» da centinaia di milioni

di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella Ma come è venuto in mente a quelli della Conferenza delle Regioni di rimuovere dal sito la tabella con gli stipendi e le diarie dei governatori e dei consiglieri? Diranno: ora ci sono link delle leggi locali.

Cliccate a caso: uno scroscio di commi, non è trasparenza: è una presa in giro dei cittadini. Prima potevano confrontare vicepresidente e vicepresidente, assessore e assessore… Ora no. Davano fastidio le tabelle insolitamente chiare? Le hanno tolte per toglier acqua ai pesci dell’«antipolitica»? È sbalorditivo che dei « professionisti» (presunti) non capiscano i danni che fanno alla politica con errori così madornali. Di questi tutti lì a chiedersi sgomenti: e ora, cosa fare? Cambiate, è la risposta. Il risultato delle urne, oltre a un mucchio di problemi, offre a un sistema in crisi l’occasione di sterzare prima dell’abisso. Facendo finalmente cose indispensabili non per tirar su una diga contro l’ondata grillina ma per recuperare un rapporto decente coi cittadini. Proprio il trionfo di Grillo, senza manifesti, spot o camion-sandwich, smonta la tesi abusata che «i costi della politica» (esagerazioni e privilegi compresi) siano «i costi della democrazia». Non è così. Mentre il Pil precipitava sotto ai livelli del 2001, i costi del Palazzo hanno continuato a salire: del 65% in un decennio le spese correnti del Senato, del 43% il costo del consiglio regionale del Lazio solo dal 2007 in qua. Mentre imponevano agli italiani tagli drastici e immediati, «loro» contenevano o rimandavano i propri. Tanto che i consiglieri uscenti stanno facendo le pratiche per vitalizi regionali che qua e là si possono avere ancora a 50 anni. Proprio l’obbligo di recuperare la fiducia dei cittadini nella politica impone misure urgentissime anti Casta. Intorno cui cercare intese. Certo, alcune richiedono modifiche costituzionali. Ma se c’è la volontà, si è visto sull’obbligo del pareggio di bilancio, si fanno in fretta. Per rivendicare la propria centralità il Parlamento deve cambiare se stesso. Siamo gli unici al mondo a imporre a un governo di guadagnarsi due fiducie in due Camere. Non ce lo possiamo più permettere. I parlamentari devono far chiarezza sugli stipendi loro e dei collaboratori. Fanno un lavoro importante, hanno diritto a buste paga decorose. Ma basta con le ambiguità sui collaboratori. E basta con l’andazzo dei due mestieri insieme, magari usando il ruolo parlamentare a favore dei clienti privati. Nei Paesi seri chi fa il deputato fa quello e basta. Così magari s’attacca meno alla poltrona. Vale per Roma, vale per le Regioni. Ancora: va spezzato quel rapporto anomalo costruito da una classe politica mediocre con la burocrazia. Più gli eletti sono scadenti, più devono affidarsi a burocrati (spesso strapagati) che diventano gli unici in grado di fare e poi interpretare gli atti. E dunque hanno interesse a rallentare ogni svolta vera che li renda meno indispensabili. Ma il punto di partenza, insieme con atti di rottura quali l’abolizione delle Province visto che tranne la Lega si dicono tutti d’accordo, deve essere la trasparenza Tutto online Senza furbizie Dai bilanci (leggibili però ..) degli organi costituzionali a quelli delle municipalizzate, dai finanziamenti ai partiti fino ai patrimoni di ministri e parlamentari: gli italiani devono poter sapere come sono spesi i loro soldi e da chi Non sarà semplice? Non lo sarà neanche per i cittadini recuperare la fiducia perduta

Finanziamento pubblico. «Tesoro» da centinaia milioni decuplicato in 14 anni

Il picco nel 2008: 503 milioni a fronte di 110 di spese. Dopo il taglio dl 2012 ai partiti toccano 159 milioni di euro. Totalmente disatteso l’esito del referendum abrogativo promosso 20 anni fa dai Radicali

ROMA – E pensare che se solo si fosse rispettata la volontà degli elettori, il finanziamento pubblico ai partiti non esisterebbe più da 20 anni, da quando cioè più di 34 milioni e mezzo di italiani dissero di sì al referendum abrogativo promosso dal partito radicale di Marco Pannella. Invece stiamo ancora parlando di come eliminare il finanziamento. Anzi l’argomento non è mai stato vivo come ora mentre, paradossalmente, ad essere scomparsi, almeno dal Parlamento, sono proprio i radicali. Adesso quella loro antica battaglia è diventata di nuovo di massa grazie al Movimento 5 stelle di Beppe Grillo, che ieri ha annunciato la rinuncia alla propria quota di rimborsi per le elezioni appena tenute, 42,7 milioni di euro, in attesa di ottenere, nel nuovo Parlamento, una legge che abolisca per tutti i partiti i finanziamenti elettorali. Finora si è trattato di quasi 200 milioni di euro l’anno, considerando i rimborsi per tutte le elezioni – politiche, europee e regionali – che vengono incassati appunto in rate annuali. Ora, dopo la riforma dello scorso luglio, questa cifra si è all’incirca dimezzata. E per le sole elezioni politiche del 24 e 25 febbraio la torta che i partiti dovrebbero spartirsi durante la legislatura ammonta, secondo l’Ansa, a 159 milioni. Una somma che verrà ripartita proporzionalmente ai voti presi.

Ma perché il finanziamento c’è ancora? Perché, nonostante il 90,3% di sì al referendum del 1993, i partiti di allora si inventano un sotterfugio per farlo rinascere, attraverso appunto i rimborsi elettorali o meglio il «contributo per le spese elettorali», come lo definisce la legge 515 del 10 dicembre 1993. Del resto, il ragionamento che fanno allora tutti i partiti, radicali esclusi ovviamente, è che il voto è stato condizionato dal clima di protesta dovuto a Tangentopoli e che se la politica non deve essere appannaggio solo dei ricchi una qualche forma di finanziamento è necessaria. E pazienza se gli elettori non sono d’accordo, col tempo capiranno. Non è andata così. L’indignazione popolare è cresciuta di pari passo con l’entità dei rimborsi.

Calcolando tutto in euro (fino al 2001 c’era la lira), si è infatti passati, considerando solo i rimborsi per le elezioni politiche, dai 47 milioni di contributi erogati complessivamente ai partiti per le politiche del 1994 agli oltre 500 milioni previsti per le consultazioni del 2008. La spesa a carico dei contribuenti si è insomma decuplicata in 14 anni. Ma soprattutto è aumentato il divario tra il contributo e quanto effettivamente speso. Se nel 1994 a fronte dei 47 milioni incassati le spese documentate erano state di 36 milioni, nel 2008 il rapporto era di quasi cinque a uno: 503 milioni di rimborsi previsti a fronte di 110 milioni di spese. Un meccanismo illogico e indifendibile. Che gli stessi partiti, senza vergogna, hanno perfezionato negli anni. E così nel 1999 con la legge 157 il contributo viene sganciato dalle spese sostenute e ritorna a tutti gli effetti un finanziamento alimentato da un fondo per le politiche di quasi 200 milioni di euro per la legislatura.

Ma non passano neppure tre anni e nel 2002 l’ingordigia dei partiti si sfoga nella legge 156 che più che raddoppia il fondo, portandolo a 469 milioni, e nell’abbassamento dal 4% all’1% della soglia di voti da prendere alle elezioni per accedere al bottino. Il risultato sarà un altro dei tanti intollerabili paradossi di questa storia: che anche i partiti che non entrano alla Camera perché non superano la soglia di sbarramento del 4% prevista dalla legge elettorale, accedono ugualmente ai rimborsi purché abbiano preso almeno l’1%. Ma la ciliegina finale arriverà nel 2006 quando con la legge 51 si stabilirà addirittura che i soldi sono dovuti per l’intero ammontare previsto dal fondo anche se la legislatura finisce anticipatamente. Prima invece le rate annuali si interrompevano in caso di elezioni anticipate. Succede così che, dal 2008, a causa della brusca fine della quindicesima legislatura (governo Prodi), i partiti mentre cominciano a prendere le rate del rimborso delle politiche di quell’anno continuino a riscuotere anche le rate della legislatura precedente che doveva finire tre anni dopo. Doppio rimborso, insomma. Un’enormità davanti alla quale gli stessi partiti si rendono conto che conviene tornare indietro e la norma infatti viene presto cancellata.

Ci sono però voluti gli scandali che nel 2012 hanno colpito i tesorieri della Margherita e della Lega e le spese folli che sono venute fuori anche alla Regione Lazio per riaprire il dibattito. E arrivare a una prima risposta con una legge approvata il 5 luglio: taglio del 50% dei rimborsi ai partiti. Dai previsti 182 milioni incassati nel 2011 sommando le rate dei rimborsi elettorali (politiche, europee, regionali) si passa a 91 milioni dal 2012. Il 70% di questi saranno erogazioni ricevute direttamente dallo Stato (63,7 milioni), il 30% (27,3 milioni) «cofinanziamenti»: in pratica per ogni euro di contributi privati ricevuti da persone fisiche o enti i partiti avranno anche 50 centesimi dallo Stato. Diventa obbligatoria la certificazione dei bilanci; viene istituita una Commissione di controllo formata da 5 magistrati designati dai presidenti della Corte dei Conti, della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato; i conti dei partiti devono essere pubblicati in Internet; sono previste dure sanzioni per chi viola le regole; la soglia oltre la quale le donazioni private devono essere dichiarate scende da 50 mila a 5 mila euro. Per avere i contributi bisogna avere almeno un eletto in Parlamento.

Pensavano di aver fatto abbastanza i partiti questa volta. I 163 milioni che si risparmieranno nel 2012 e nel 2013 andranno ai terremotati, si vantavano. E il Pd sul suo sito spiegava che i 91 milioni di contributi previsti per il 2012 per tutti i partiti equivalgono a 1,5 euro per italiano contro i 2,4 che vengono dati in Francia e i 5,6 in Germania. Solo che accanto ai rimborsi elettorali andrebbero conteggiati anche i contributi ai gruppi parlamentari erogati dai bilanci di Camera e Senato, fino al 2011 circa 75 milioni l’anno, e i finanziamenti ai giornali di partito, una cinquantina di milioni l’anno. E questo senza contare tutti i finanziamenti a livello regionale, altri 75 milioni circa l’anno, prima delle ultime riforme. Un sistema che non poteva andare avanti se anche un vecchio comunista come Ugo Sposetti, strenuo difensore del finanziamento pubblico, giusto un anno fa, davanti al moltiplicarsi degli scandali, diceva all’Espresso: «L’indignazione dei cittadini ci metterà tutti sullo stesso piano. E ci spedirà a casa tutti. Tra sei mesi». Sulla data è stato precipitoso, ma sul resto ci è andato molto vicino.

Enrico Marro – Corriere della Sera – 3 marzo 2013

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