Le divisioni all’interno della maggioranza rallentano l’iter parlamentare del Jobs act. La pausa estiva non è servita per ricomporre la frattura e la commissione Lavoro del Senato ha rinviato a giovedì prossimo l’esame del Ddl che il relatore, Maurizio Sacconi (Ncd), contava di portare in Aula entro metà luglio.
Non è ancora stata fissata una riunione di maggioranza per stabilire una linea comune tra il Pd e l’area centrista (Ncd, Sc, Ppi e Svp) che preme per concedere una delega ampia al governo per riscrivere lo Statuto dei lavoratori, in un Testo unico semplificato che affronti la disciplina dei licenziamento, i demansionamenti, l’impiego degli impianti audiovisivi per i controlli a distanza. «In Italia la prima riforma è quella relativa al mercato del lavoro – afferma Sacconi – il governo è atteso alla prova del nove. Il premier Renzi dimostri di non accettare veti, chieda una delega ampia per la riforma dello Statuto verso la quale tutti i componenti della maggioranza, a partire da quelli del suo partito, dovrebbero esprimere un necessario atto di fiducia». Mentre il Pd intende restringere il perimetro di intervento al tema della mansioni e dei controlli a distanza: «È evidente – afferma il presidente della commissione lavoro della Camera, Cesare Damiano (Pd) – che tanto più si danno deleghe in bianco al governo a cambiare nel profondo lo Statuto e l’articolo 18, tanto più aumentano le difficoltà. Serve una riunione di maggioranza perchè con le divisioni esistenti, diventa difficile rispettare la tempistica fissata dal governo».
Il richiamo del capo dello Stato ad accelerare sulle riforme non ha ancora prodotto effetti. Per rispettare il timing del governo Palazzo madama deve approvare il testo entro settembre, considerando che potranno servire tre passaggi tra Senato e Camera. Nei piani del governo il Ddl va approvato entro l’anno, dopodiché nei sei mesi successivi saranno pronti i decreti legislativi, cioè tra la primavera e giugno 2015 saranno operative le nuove misure, sempreché non servano decreti attuativi. Si tratta di un orizzonte temporale piuttosto lungo, di fronte all’emergenza disoccupazione che tra i giovani ha raggiunto il picco del 42,9 per cento. Per i giovani il governo ha lanciato il 1? maggio il piano Garanzia giovani che, però, ha un impatto piuttosto limitato: si sono registrati in 179mila, quasi 42mila sono stati convocati dai servizi per il lavoro, tra loro oltre 26mila hanno ricevuto il primo colloquio di orientamento. Le occasioni di lavoro sono poco più di 10mila, i posti disponibili circa 15mila. Èunbilancio piuttosto magro, quello tracciato dal ministero del Lavoro al 4 settembre, in attuazione del piano da 1,5 miliardi (in prevalenza risorse comunitarie) visto che, secondo la Raccomandazione dell’Ue, ai giovani con meno di 25 anni va garantita un’offerta qualitativamente valida di lavoro, proseguimento degli studi, apprendistato, tirocinio o formazione, entro 4 mesi dall’uscita dal sistema di istruzione o dall’inizio della disoccupazione. Anche il bonus annunciato dall’ex ministro Giovannini a giugno 2013 per l’assunzione di giovani “svantaggiati” sta dando frutti limitati, con 30mila tra assunzioni e trasformazioni da tempo determinato a indeterminato.
In questo quadro cresce il malcontento dei sindacati scesi sul piede di guerra nel pubblico impiego, tra le forze armate, mentre una novità arriva dalla Fiom, sindacato solitamente assai battagliero. Il leader delle tute blu della Cgil, Maurizio Landini – unico sindacalista ad avere un filo diretto con il premier – lancia una mobilitazione proponendo uno sciopero “al rovescio”, con una giornata di lavoro straordinaria destinata ad attività socialmente utili per coinvolgere occupati, cassaintegrati e senza lavoro: «Non è uno sciopero di protesta o di opposizione al governo Renzi – spiega – maper sollecitare una diversa politica industriale».
Poletti: entro l’anno il via libera al Jobs act
Per avviare un’impresa in Danimarca bastano 90 euro, in Italia ne servono 3.655. Noi ultimi in Ue per possibilità di trovare lavoro
«La discussione sulla riforma del mercato del lavoro sarà chiusa sicuramente entro la fine dell’anno. Non dipende tanto dal governo, perché ci sono i tempi parlamentari. Comunque, faremo il più velocemente possibile». Ieri mattina il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, è intervenuto all’inaugurazione del nuovo impianto produttivo del gruppo Rubinetterie Bresciane Bonomi, insieme al presidente di Confindustria Giorgio Squinzi e al premier Matteo Renzi. A Gussago, Poletti ha auspicato di «evitare che le Camere si palleggino e si rimpallino l’approvazione». E, poi, è tornato a riflettere sulle linee guida che ispirano la riforma dello Statuto dei lavoratori prospettata dall’Esecutivo: «Serve equilibrio tra giusta flessibilità e congrue tutele». Poletti, a chi domandava se potrebbe essere preso in considerazione il sistema statunitense, si è limitato a rispondere: «Non è la nostra posizione. Abbiamo avviato un percorso che sta scritto nella legge delega e quindi continuiamo su questo versante». Poletti, che al pomeriggio avrebbe dovuto partecipare a una sessione dei lavori del workshop Ambrosetti di Cernobbio, ha avuto un problema di salute e ha preferito rinunciare. Al di là di quale modello verrà scelto per dare più flessibilità e per costruire un sistema di ammortizzatori sociali attivi, di certo la riforma del governo insisterà su un contesto estremamente complesso, come ha dimostrato ieri lo studio realizzato da The European House Ambrosetti. Un report di qualità, curato in particolare da Emiliano Briante, Umberto Marengo e Pietro Mininni, che ha costituito la base di discussione di uno degli incontri di ieri pomeriggio, fornendo alcuni spunti inediti alla discussione pubblica. Oltre a ricordare statistiche note (l’elevata disoccupazione, il basso tasso di attività, il dramma giovanile), a Cernobbio è stato presentato in particolare The European House-Ambrosetti Employability Index. Questo indice, che compara la possibilità di trovare un lavoro per i giovani nei diversi Paesi europei, mostra il deficit strutturale italiano. Posto a 1 la bassa possibilità e a 10 l’alta possibilità di trovare un posto, la Danimarca è a 9,7, la Germania è a 9,5, la Francia è a 8 e la Gran Bretagna è a 7,8. La Spagna è al penultimo posto: 2,9. L’Italia è all’ultimoposto: 2,2. In questo 2,2 ci sono i tarli di una “generazione perduta”: i troppi anni medi trascorsi come fuori corso all’università, l’eccessiva disoccupazione e soprattutto l’inerzia (anche per il non perfetto funzionamento dei centri per l’impiego) di chi ha perso il lavoro e nulla fa (o nulla riesce a fare) mentre ne sta cercando un altro. Peraltro, la rigidità del mercato del lavoro e la lontananza dell’Italia da un modello efficiente di flexsecurity sono complementari alla complessità di un ambiente economico che non facilita lo spirito imprenditoriale dei giovani. Non a caso, con acume, in questo report si ricorda come, per avviare una impresa, in Danimarca si spendano 90 euro; in Italia 3.655 euro. Il che, viste le statistiche sulla natalità delle imprese italiane, significa un costo aggregato di poco meno di un miliardo di euro. Riforma del mercato del lavoro e miglioramento delle condizioni del fare impresa: due elementi necessari per provare a ripartire.
Il Sole 24 Ore – 6-7 settembre 2014