Le imposte non armonizzate su alimenti con alto contenuto di zucchero, sale e grassi – quali ad esempio soft drinks e snack – inducono una riduzione del consumo dei prodotti tassati, ma l’esatto impatto sulla competitività del settore agroalimentare europeo deve essere ulteriormente valutato. Questo il risultato e la conclusione dello studio “Le Imposte alimentari e il loro impatto sulla competitività del settore agroalimentare”-, commissionata dalla Direzione Generale Imprese e Industria della Commissione europea al consorzio Ecsip guidato da Ecorys Paesi Bassi, nel quadro delle attività del Forum di alto livello per un migliore funzionamento della catena di approvvigionamento alimentare. Va precisato che lo studio riflette la visione propria di un ramo solo della Commissione Europea, ovvero, la Dg Impresa
Non è detto che la DG Salute e Consumatori condivida le stesse preoccupazioni o sensibilità. Non a caso, lo studio sembra smorzare i toni entusiastici sulle tasse circa il junk food, come da più parti sollevate, soprattutto a livello di Stati membri UE. I primi che ne hanno visti gli effetti positivi.
Consumi
Un primo risultato, sulla base dei casi- ancora limitati- proposti all’attenzione-riguarda la riduzione del consumo degli alimenti tassati. Tuttavia- avvertono gli autori- vi è la possibilità che i consumatori trasferiscano i consumi su alimenti meno tassati, rendendo di fatto nullo l’effetto delle tasse.
Un altro effetto inatteso: comprare prodotti tassati ma non di marca, in questo modo ammortizzando l’aumento di prezzo apparente.
Impatto sulla competitività
La ricerca sottolinea un aumento degli oneri amministrativi, argomentando che un impatto preciso su
redditività, occupazione e investimenti deve essere ulteriormente esplorato, ma ci sono alcune indicazioni che queste possono essere influenzati negativamente. “Nessun conclusioni definitive sono possibili a causa del numero limitato di casi disponibili e il breve lasso di tempo tra l’introduzione di imposte e lo studio”, è in ogni caso la conclusione.
In base alle evidenze emerse, non vi sarebbe notizia di un aumento e sostituzione degli acquisti domestici di prodotti tassati con prodotti provenienti da fuori, e non tassati.
In definitiva, servono ulteriori studi e dati per meglio valutare l’impatto delle tasse sul junk food sul settore alimentare. Parole chiave, ma anche .. troppa incertezza.
Una riflessione può certamente essere fatta, in un momento in cui il policy making si avventura su territori nuovi, esplorando inedite modalità di azione che necessariamente richiedono nuovi modi di pensare, e quindi, nuovi concetti. Lo si è visto nel caso della “sostenibilità”, concetto ampio e fumoso, che richiede una operazionalizzazione migliore tramite indicatori precisi (“di cosa stiamo parlando”?, o ancora, “quante forme ha la sostenibilità?” sono due domande da porsi, per evitare un approccio troppo ingenuo).
La stessa cosa dovrebbe essere portata sul cibo da tassare: il cosiddetto “cibo spazzatura”. Concetti così vasti e onnicomprensivil, per poter essere di una qualche utilità pratica, vanno quindi meglio definiti.
Se il dibattito su cosa sia “junk food” procede obliquamente, si ricordi la battaglia prima contro, poi in favore della riabilitazione, dei grassi saturi; o di quelle pro – contro gli zuccheri aggiunti- free sugars, e così via.
Quel che serve, prima di proporre regimi precisi di tassazione, magari utilissimi, è una definizione- meglio pan- europea- di cosa sia più o meno sano. E’ quel che suggerisce un articolo appena pubblicato sul British Food Journal “is Junk Food an healthy concepts? From policy making back to science”.
In tal senso, gli attesissimi “profili nutrizionali” previsti dal reg. 1924/2006 e attesi per il 2009, sono ancora in attesa presso le istituzioni UE. Ma alla fine, solo così si potrebbe fare in modo che il “junk food” diventi un’idea salubre e buona.
Sicurezza Alimentare Coldiretti – 5 agosto 2014