di Aldo Cazzullo. Diciamolo con chiarezza: questo decreto non è un piano per il futuro, è una dichiarazione di fallimento per il passato. Sancisce l’incapacità di prevenire la seconda, annunciatissima ondata della pandemia. Le conseguenze sono gravi, sia sul fronte sanitario sia su quello economico. Il tracciamento è saltato, i tempi di attesa per fare i tamponi e riceverne l’esito sono inaccettabili, il sistema sanitario è già sotto pressione. I baristi, i ristoratori, i proprietari di palestre e piscine che avevano speso per attrezzare i locali, i lavoratori che avevano riaperto cinema e teatri in sicurezza vedono tutto vanificato; e anche gli insegnanti, i bidelli e gli studenti delle superiori si chiedono a cosa siano serviti i sacrifici che avevano accettato per far ripartire le loro scuole. Le responsabilità del governo e delle Regioni sono sotto gli occhi di chiunque non sia accecato dal pregiudizio.
C’è però un’altra cosa da dire, con altrettanta chiarezza. Il fatto che la seconda ondata non sia stata prevenuta non ci esime dal dovere di rispettare le regole per evitare che il contagio cresca ancora, e mieta ancora più vittime.
N on soltanto le norme del Dpcm andranno ovviamente applicate; dev’essere chiaro che non si tratta di una concessione a un governo o a una Regione o a una parte politica, ma di un atto dovuto a noi stessi, ai nostri cari, a medici e infermieri, alla comunità di cui facciamo parte.
Certo, il sacrificio che ci viene chiesto è grande. Rinunciare di fatto alla vita sociale, proprio nella stagione che precede il Natale e che è decisiva per l’andamento di molti comparti del consumo, è doloroso e dannoso. Si tratterà di trovare un equilibrio tra sicurezza e socialità, senza ricorrere alla brusca e impossibile misura di chiudere tutto e tutti. Attenzione però a evitare errori di valutazione che potrebbero avere conseguenze altrettanto gravi.
Le rivolte di Napoli e Roma non vanno confuse con la sofferenza di chi non può lavorare. È evidente una matrice ideologica e criminale, che sfrutta la giusta preoccupazione e la legittima insofferenza popolare per dare addosso alle forze dell’ordine. E questo non è assolutamente accettabile. L’opposizione dovrebbe prenderne apertamente le distanze; anche perché il gioco di invocare le chiusure quando il governo apre, e invocare le riaperture quando il governo chiude, significa non avere un piano diverso dal lucrare sull’inadeguatezza altrui.
Non si possono però trattare lavoratori autonomi, artigiani, piccoli imprenditori che esprimono il proprio disagio come se fossero massa di manovra della criminalità. I danni causati da questo nuovo lockdown parziale vanno risarciti; ma per davvero, e subito. Non basta annunciarlo; occorre farlo. A dispetto delle promesse, lo Stato italiano resta un cattivo pagatore, e la nostra Pubblica amministrazione fatica nella fase attuativa; questo però non può accadere adesso, non in questa emergenza. Allo stesso modo, l’Europa deve rendersi conto che i piani per la prossima generazione sono fondamentali, che la digitalizzazione e la transizione ecologica rappresentano il nostro futuro, ma una parte delle risorse del Recovery Fund vanno spese qui e ora per ristorare i danni di chi vorrebbe lavorare e non può farlo.
Il rischio è che la nuova stretta aumenti la forbice tra garantiti e non garantiti, tra chi può lavorare da casa e ricevere lo stesso lo stipendio e chi no, tra chi nell’attesa che passi la nottata accumula risparmi e chi non ha i soldi per vivere. Questa forbice va chiusa il più possibile; anche per prevenire le rivolte, e per isolare e punire i violenti.
Molto è affidato alla nostra responsabilità. Siamo tutti chiamati alla prova più dura della nostra vita. E la prova più dura non è il punto basso; deve essere il nostro punto alto.