Dice l’Ue: è solo una marcatura che ci ricorderà da dove arrivano certe merci in Europa. Protesta Israele: è un infame marchio che ci ricorda certi vagoni merci di 70 anni fa in Europa. L’etichetta non ha mai contraddistinto le relazioni fra Bruxelles e i governi israeliani. La guerra delle etichette le sta facendo degenerare.
«Semplice provvedimento tecnico» o «schedatura che risveglia tristi memorie», dopo un decennio di discussioni e due di voti e di veti, un mese dopo i 525 sì (contro 70 no) del Parlamento europeo, la Commissione Ue è passata ai fatti: d’ora in poi l’ortofrutta, i formaggi, il vino, il miele, l’olio, il pollame, le uova, i cosmetici, la plastica, tutti i prodotti che provengano dalle colonie israeliane nei Territori palestinesi, dovranno essere etichettati «in modo corretto e non fuorviante». Verranno venduti come prima. Ma non basterà scriverci sopra «made in Israel»: come accade già a Londra, in Belgio o in Danimarca, sarà obbligatorio indicare «prodotto israeliano delle colonie» della Cisgiordania, del Golan o di Gerusalemme Est. Ovvero d’insediamenti che l’Ue dichiara illegali e che un consumatore, pertanto, può decidere se comprare oppure no.
Che non sia solo una questione tecnica, lo dimostra subito la reazione d’Israele. Da settimane faceva pressioni su tedeschi, inglesi, sulla rappresentante europea Mogherini, sui senatori Usa. Ora comunica la sospensione di tutti i «dialoghi diplomatici» coi Ventotto. «Vogliamo dare un segnale molto forte», spiega la vice degli Esteri, Hotovely: visto che «agli europei preme molto essere coinvolti nel negoziato israelo-palestinese», stop a ogni colloquio con loro. A parte l’irrilevante sinistra di Meretz, la politica israeliana è tutta con Bibi Netanyahu: «Vince chi vuole boicottarci, mentre siamo sotto attacco terroristico — dice il premier —. L’ipocrita e immorale Ue si vergogni di questo doppio standard che colpisce Israele e non altre 200 dispute nel mondo. Perché non si fa lo stesso per il Sahara occidentale o per la Cipro turca?».
Plaudono il presidente palestinese Abu Mazen e Peace Now — «le colonie sono il maggiore ostacolo alla pace» — anche se l’obbiettivo era un divieto totale dell’export. Nel silenzio dei grandi leader europei, a replicare sono un vicecommissario e l’ambasciatore Ue a Tel Aviv: «Esagerato parlare di boicottaggio, per tutti i prodotti israeliani restano le agevolazioni doganali: è solo un’indicazione d’origine».
Più che i soldi — 150 milioni d’euro, nemmeno l’1% del volume d’affari con l’Ue — a Netanyahu pesa perdere la partita. Se le fattorie dei coloni chiuderanno, avverte, i primi a soffrirne saranno i 10 mila palestinesi che vi lavorano. E se si deve andare alla guerra commerciale, minaccia un deputato Likud, «marchieremo anche noi tutti i prodotti Ue». Occhio per occhio, etichetta per etichetta .
Francesco Battistini – Il Corriere della Sera – 12 novembre 2015