Rispetto rigoroso della tempistica, esatta individuazione dei requisiti dimensionali dell’azienda, definizione del perimetro del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Sono i tre binari su cui si articola la circolare n. 3/2013 del ministero del Lavoro sulla conciliazione obbligatoria preventiva (articolo 7 della legge 604/1966, modificato dalla legge Fornero 92/2012, articolo 1, comma 40). Senza dimenticare l’obbligo di pagamento del ticket sui licenziamenti scattato il 1° gennaio scorso, che va versato a prescindere dall’esito della conciliazione, salvo le ipotesi – in via transitoria fino al 2015 – di licenziamento per cambio appalto e chiusura cantiere in edilizia. Le imprese e la casistica. La conciliazione preventiva è un vero e proprio percorso a tappe.
Obbligatorio per i datori di lavoro che occupano più di 15 lavoratori (in base alla legge 300/1970) e che effettuano licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, vale a dire per motivi inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro. Peraltro, il Lavoro ha precisato che il calcolo della base numerica – per il rispetto della disposizione – deve essere effettuato tenendo conto della media dei lavoratori occupati negli ultimi sei mesi, secondo i consolidati indirizzi della giurisprudenza in materia. Il computo dell’organico deve essere depurato dalle tipologie contrattuali escluse per effetto di disposizioni legislative ad hoc, come i rapporti di apprendistato, i lavoratori somministrati, e così via.
Rientrano invece nel conteggio i lavoratori part time, “pro-quota” rispetto all’orario normale contrattuale, così come i lavoratori intermittenti.
Con riferimento alle ipotesi di recesso, la circolare ha precisato che, oltre alle ipotesi “canoniche” di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, rientrano nell’obbligo di conciliazione anche i licenziamenti intimati per inidoneità fisica, per impossibilità di repêchage (destinazione del lavoratore ad altre mansioni), per chiusura di cantiere in edilizia e quelli conseguenti a provvedimenti di natura amministrativa (si pensi al ritiro del porto d’armi per una guardia giurata).
La procedura in tre fasi
Questo l’iter per intraprendere la conciliazione:
– il datore di lavoro deve trasmettere alla Dtl competente per territorio (in base al luogo di attività del dipendente), e per conoscenza al lavoratore, una comunicazione in cui manifesta la volontà di intimare il licenziamento e indica i motivi alla base di questa scelta;
– quando la Dtl riceve la comunicazione, la procedura si intende avviata, e la convocazione delle parti avviene entro il termine perentorio di sette giorni (per la ricostruzione del percorso dettagliato, si veda il grafico a lato);
– entro 20 giorni da questa convocazione, la conciliazione deve concludersi (salvo il caso di sospensione o richiesta delle parti).
Fatte salve le eccezioni per l’edilizia indicate in precedenza, qualunque sia l’esito della procedura – recesso o risoluzione consensuale del rapporto – il datore di lavoro è tenuto a versare all’Inps il ticket sui licenziamenti introdotto dalla riforma per finanziare l’Aspi (articolo 2, comma 31 della legge 92/2012): ora il ticket può arrivare fino a 1.376 euro, ma si attende ancora la rivalutazione per il 2013.
Se la conciliazione sfocia in un accordo di risoluzione consensuale, il lavoratore potrà fruire dell’Aspi solo se ha i requisiti previsti: in questa ipotesi, il sussidio va corrisposto anche per le risoluzioni avvenute dal 18 luglio 2012 (messaggio Inps n. 20830/2012).
Un’altra criticità potrebbe derivare dalla gestione della “sospensione” del rapporto durante la procedura, fino alla sua cessazione: se il lavoratore ha continuato a prestare la propria attività, questo periodo deve essere considerato come preavviso lavorato, anche nei casi in cui il relativo periodo disposto dal Ccnl è inferiore alla durata del procedimento di conciliazione. Una stortura a cui il datore di lavoro potrebbe ovviare specificando nella comunicazione di avvio della procedura che la prestazione lavorativa non è richiesta e impegnandosi a corrispondere l’indennità di mancato preavviso.
È bene sottolineare l’importanza che l’iter sia osservato con cura: la motivazione del licenziamento è rimessa alla valutazione del datore di lavoro, ma il recesso intimato in violazione degli obblighi sulla conciliazione è inefficace, con l’applicazione di un’indennità risarcitoria a favore del lavoratore, che il giudice può determinare tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità.
Il difetto di motivazione potrebbe portare a conseguenze sanzionatorie ben più pesanti nel momento in cui, in caso di contenzioso giudiziale, il licenziamento fosse classificato in ipotesi diverse da quella del giustificato motivo oggettivo. La mancata attivazione della conciliazione obbligatoria può comunque essere sanata se le parti intendono attivare una conciliazione in sede sindacale dopo il licenziamento: in questa ipotesi, il recesso dà luogo all’Aspi.
I licenziamenti disciplinari
Il percorso
I DESTINATARI
Tutti i datori di lavoro, imprenditori e non, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo occupano più di 15 lavoratori o più di 5 lavoratori se imprenditori agricoli. In ogni caso, i datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che occupano più di sessanta dipendenti
L’AMBITO APPLICATIVO
La conciliazione obbligatoria si applica nei casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo: vi rientrano anche quelli intimati per inidoneità fisica, per impossibilità di repêchage (destinazione ad altre mansioni), per chiusura di cantiere in edilizia e quelli che conseguono a provvedimenti amministrativi
LA COMUNICAZIONE PREVENTIVA
Il datore di lavoro è obbligato a inviare una comunicazione scritta alla Dtl competente territorialmente (tramite raccomandata con avviso di ricevimento o posta elettronica certificata) e, per conoscenza, al lavoratore interessato (al domicilio, per posta, o consegnata a mano e controfirmata)
Nella comunicazione il datore di lavoro deve indicare: le motivazioni del licenziamento, la descrizione delle eventuali misure di assistenza per la ricollocazione del lavoratore e l’indirizzo di posta elettronica certificata, se presente
L’AVVIO DELLA PROCEDURA
La procedura si intende avviata dalla data in cui la Dtl riceve la comunicazione trasmessa dal datore di lavoro. Può svolgersi soltanto davanti alla commissione di conciliazione istituita presso la direzione territoriale del Lavoro
LA CONVOCAZIONE
La Dtl, che riceve la comunicazione dal datore, convoca le parti in commissione provinciale di conciliazione trasmettendo l’invito a presentarsi entro il termine perentorio di 7 giorni dalla ricezione dell’istanza
L’INCONTRO
Le parti possono farsi assistere dalle organizzazioni sindacali cui siano iscritte o abbiano conferito mandato, da un componente la Rsa o la Rsu, da un consulente del lavoro o da un avvocato. Eventualmente, possono farsi rappresentare da un soggetto terzo munito di delega
LA DURATA MASSIMA
La procedura si conclude entro 20 giorni dal momento in cui la Dtl ha trasmesso la convocazione per l’incontro. Il termine si calcola dalla data di convocazione: nell’arco temporale dei 20 giorni vanno computati anche quelli necessari alla ricezione della raccomandata (il problema non si pone nel caso del doppio invio tramite Pec)
LA SOSPENSIONE
La procedura può essere sospesa in caso di legittimo e documentato impedimento del lavoratore, per un massimo di 15 giorni (ad esempio, per malattia o assistenza a parenti in base alla legge 104/92). Il termine di 20 giorni può essere superato, anche su richiesta della commissione, se le parti lo reputano necessario per raggiungere l’accordo. Lo “sforamento” deve risultare da un verbale di riunione interlocutorio
ESITO POSITIVO
Se il tentativo di conciliazione si conclude positivamente, si possono percorrere anche soluzioni alternative al licenziamento come la trasformazione del rapporto da lavoro a tempo pieno a lavoro a tempo parziale: in questi casi, la commissione verbalizza i contenuti, che diventano inoppugnabili. Se si arriva alla risoluzione consensuale, la commissione ne dà atto tramite il verbale
ESITO NEGATIVO
Se il tentativo di conciliazione fallisce, il datore di lavoro può procedere al licenziamento del lavoratore. In alternativa, se la Dtl non ha effettuato la convocazione per il tentativo di conciliazione richiesto, il datore può recedere unilateralmente una volta che siano trascorsi 7 giorni dalla ricezione, da parte della stessa Dtl, della sua richiesta di incontro
LA DATA LEGALE
Il licenziamento adottato al termine della procedura ha effetto dal giorno della comunicazione con cui l procedimento è stato avviato, quindi dal giorno di ricezione della comunicazione del datore da parte della Dtl. La disposizione ha lo scopo di individuare una data «legale» di risoluzione del rapporto, con l’obiettivo di evitare possibili rallentamenti procedurali
IL GIUDIZIO
Il comportamento tenuto dalle parti durante la procedura di conciliazione è valutato dal giudice per determinare l’indennità risarcitoria spettante al lavoratore e per quantificare le spese legali
Spazio al trasferimento o al part-time
A parte i passaggi previsti dalla conciliazione obbligatoria, bisogna considerare con attenzione anche i diversi effetti che questa produce sul rapporto di lavoro, a seconda dell’esito finale.
Il datore di lavoro può infatti procedere al licenziamento del lavoratore se il tentativo di conciliazione fallisce perché le parti non hanno trovato un accordo, perché si è verificato l’abbandono o l’assenza di una di esse, oppure se la convocazione da parte della Dtl non è arrivata nei termini previsti: in queste ipotesi, la cessazione del rapporto ha effetto dal giorno della comunicazione alla Dtl con cui il procedimento è stato avviato (individuata nella data di ricezione della comunicazione da parte dell’ufficio), fatti salvi il diritto al periodo di preavviso – se il lavoratore non ha continuato a lavorare, durante la procedura – oppure, in alternativa, all’indennità sostitutiva in favore del lavoratore.
In alcuni casi, come quello di un periodo contrattuale di preavviso breve, si pone il problema di computare a questo titolo soltanto una parte dei giorni lavorati.
Per evitare abusi, la riforma del lavoro ha previsto che eventuali malattie insorte dopo la comunicazione di avvio non producano alcuna sospensione del licenziamento, mentre restano validi gli effetti sospensivi previsti dalle norme a tutela della maternità e della paternità e in caso di impedimento derivante da un infortunio sul lavoro.
Viceversa, nell’ipotesi di esito positivo della conciliazione, le soluzioni alternative al licenziamento possono essere diverse: si pensi, ad esempio al trasferimento del lavoratore, alla trasformazione del rapporto da tempo pieno a part time, e così via.
I contenuti dell’accordo sono verbalizzati dalla commissione di conciliazione, e acquistano così valenza di inoppugnabilità.
Nel caso di risoluzione consensuale del rapporto, invece, la Dtl ne dà sempre atto con un verbale e resta escluso l’obbligo di convalida – previsto dall’articolo 4, comma 17, della legge 92/2012 – davanti a uno degli organismi abilitati. Inoltre, in deroga alla disciplina ordinaria, il lavoratore può accedere all’Aspi ed essere affidato a un’agenzia del lavoro per la ricollocazione.
Sugli adempimenti operativi che riguardano la comunicazione obbligatoria del licenziamento ai servizi per l’impiego, che in via ordinaria deve essere effettuata nei cinque giorni successivi al recesso, il ministero del Lavoro (con la nota 18273 del 12 ottobre 2012) ha già chiarito che il termine di riferimento decorre dalla conclusione della procedura di conciliazione: vale a dire dalla data di effettiva risoluzione del rapporto, e non dal giorno della comunicazione di avvio del procedimento, che la legge 92/2012 individua come «data legale» e dalla quale si producono gli effetti del licenziamento.
Peraltro, è bene ricordare che, in caso di omissione della comunicazione obbligatoria, è prevista una sanzione amministrativa a carico del datore di lavoro, con un importo che va da un minimo di 100 euro a un massimo di 500 euro.
Tfr e retribuzione entrano nell’intesa
Il tentativo obbligatorio di conciliazione può allargare la propria efficacia fino a diventare una sorta di accordo “omnibus”: trattandosi infatti di una procedura a carattere conciliativo, il ministero del Lavoro ha precisato nella circolare 3/2013 che in questa intesa è possibile comprendere altre questioni di natura economica inerenti al rapporto di lavoro come, ad esempio, le differenze retributive, le ore di lavoro straordinario o il trattamento di fine rapporto.
In queste ipotesi, il lavoratore deve essere pienamente consapevole della definitività e inoppugnabilità dell’intesa che andrà a sottoscrivere (in base all’articolo 410 del Codice di procedura civile): la commissione di conciliazione, nel caso vi siano somme corrisposte a vario titolo, dovrà evidenziare separatamente quelle finalizzate all’accettazione del licenziamento.
Per quanto riguarda gli aspetti di natura fiscale e contributiva legati alla transazione, costituiscono redditi da lavoro dipendente quelli che derivano da titoli che hanno a oggetto la prestazione lavorativa.
Viceversa, nel caso di fallimento della procedura presso la Dtl, le parti possono ancora tentare altre vie per scongiurare il contenzioso giudiziale: ad esempio, attivando la conciliazione facoltativa in sede sindacale o affidando la controversia a un collegio arbitrale irrituale, come previsto dal collegato lavoro (legge 183/2010).
Nella prima ipotesi, l’accordo tra le parti è solitamente già stato raggiunto e la conciliazione serve a definire il verbale conciliativo: questo deve essere sottoscritto dal datore di lavoro, dal lavoratore e dai rappresentanti sindacali che hanno assistito le parti.
L’importanza della sottoscrizione, anche da parte del sindacato, è evidenziata da una sentenza della Cassazione (n. 13910/1999): per la Corte, il regime di inoppugnabilità (secondo gli articoli 410 e 411 del Codice di procedura civile) delle rinunzie e delle transazioni relative a diritti inderogabili dei lavoratori (articolo 2113 del Codice civile) presuppone che la conciliazione sia caratterizzata dall’intervento di un soggetto «terzo», ritenuto idoneo a tutelare il lavoratore nel momento in cui effettua la rinuncia o la transazione.
Una volta sottoscritto, il verbale in sede sindacale è depositato presso la Dtl a cura di una delle parti o per il tramite di un’associazione sindacale e poi nella cancelleria del tribunale per essere dichiarato esecutivo.
Nel secondo caso, la controversia può invece essere risolta attraverso un collegio arbitrale irrituale composto da un rappresentante di ciascuna delle parti e da un terzo membro, in funzione di presidente.
La parte che intenda avvalersi di questa procedura deve notificare un ricorso sottoscritto e diretto alla controparte. Se quest’ultima accetta, nomina a sua volta il proprio arbitro di parte per proseguire nell’iter della conciliazione.
Anche i contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali più rappresentative, possono prevedere commissioni “ad hoc” alle quali i datori di lavoro o i lavoratori possono affidare la risoluzione della vertenza lavorativa.
Il sole 24 Ore – 28 gennaio 2013