di Stefano Rossi, il Sole 24 Ore. La riforma del mercato del lavoro potrebbe riportare in primo piano la figura del licenziamento discriminatorio, anche se – alla luce degli orientamenti della giurisprudenza – non sarà facile per un lavoratore dimostrare di esserne stato vittima. La legge 92/2012, infatti, ha modificato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, incidendo sui licenziamenti disciplinari e su quelli per motivi economici, ma ha sostanzialmente lasciato immutata la disciplina dei licenziamenti discriminatori. E se è vero che nel tempo l’area dei licenziamenti discriminatori è stata allargata dalla giurisprudenza, d’altra parte il lavoratore fa i conti con il difficile compito di dimostrare le ragioni ritorsive o di rappresaglia del provvedimento espulsivo
Mentre la risoluzione del rapporto basata su motivi disciplinari o economici, se ritenuta illegittima, può essere oggi sanzionata, in alcuni casi, con il solo indennizzo economico, in luogo della reintegrazione sul posto di lavoro, l’illegittimità del licenziamento discriminatorio continua a prevedere come sanzione la reintegrazione del lavoratore in azienda.
Finora nelle aule di tribunale i casi di licenziamento discriminatorio sono stati rari, anche perché nelle lettere di licenziamento non sono normalmente citati elementi da ricollegare a una discriminazione esplicita, ma si trovano ragioni economiche (giustificato motivo oggettivo) o motivi disciplinari. La possibilità di ottenere la reintegrazione, però, potrebbe rendere più frequente la contestazione del licenziamento discriminatorio.
Resta il fatto, comunque, che i casi in cui negli ultimi anni i giudici hanno riconosciuto la discriminazione sono circoscritti a situazioni-limite, in cui è la “scorrettezza” della situazione è evidente (si vedano i casi nelle schede in pagina).
Ad esempio, con la sentenza 3547 del 7 marzo 2012, la Cassazione ha affermato che il licenziamento del dirigente può essere considerato arbitrario solo quando si dimostra pretestuoso e quindi non corrispondente alla realtà. In pratica, se il licenziamento è collegato a un effettivo processo di riorganizzazione del settore aziendale, la motivazione risulterà lecita e obiettivamente verificabile, escludendo in questo modo l’arbitrarietà del provvedimento espulsivo. Di diverso avviso la tesi del ricorrente, secondo cui la soppressione dell’area di responsabilità non rientrava in precise scelte organizzative ma era dettata da intenti ritorsivi o discriminatori.
In un’altra occasione, invece, la Cassazione ha dato ragione al direttore provinciale di una confederazione e consigliere di amministrazione di una società controllata dalla stessa confederazione. Il lavoratore sosteneva di essere stato licenziato per volontà del presidente in conseguenza del proprio rifiuto di sottoscrivere il bilancio aziendale e di aver espresso un fermo rifiuto sul distacco di alcuni dipendenti della federazione presso la società controllata, poiché si sarebbe potuta ravvisare l’ipotesi di somministrazione di manodopera vietata. La Cassazione, con la sentenza 2958 del 27 febbraio 2012, ha confermato la pronuncia di merito ritenendo che l’assunto difensivo fosse adeguatamente motivato. Infatti, da un lato c’erano indici di ritorsione nei confronti del dipendente, dall’altro era mancato un riscontro fattuale del motivo economico posto alla base del licenziamento per riduzione dei costi ingenti legati alla posizione lavorativa del direttore.
L’area del simulato licenziamento discriminatorio non si limita solo alle motivazioni di tipo economico, ma si estende anche a ipotesi di «ritorsione o rappresaglia», come reazione ingiusta e arbitraria del datore a comportamenti non graditi. È quanto accaduto a un lavoratore che, chiedendo al proprio datore il pagamento degli straordinari e dei permessi retribuiti, si vedeva recapitare la lettera di licenziamento per riorganizzazione del magazzino imposta dalla crisi che aveva fatto diminuire gli ordini. La Cassazione, con la sentenza 16925/2011 ha ribadito che il compito del magistrato è quello di valutare la reale sussistenza delle ragioni poste alla base della soluzione adottata e verificare «l’effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato». Così, nel vagliare le motivazioni, il giudice potrà interpretare estensivamente i motivi vietati dall’articolo 4 della legge 604/1966, dall’articolo 15 della legge 300/1970 e dall’articolo 3 della legge 108/1990, comprendendo anche il licenziamento per «ritorsione o rappresaglia», attuati in seguito a comportamenti sgraditi al datore, che costituisce cioè l’ingiusta e arbitraria reazione, come unica ragione del provvedimento espulsivo (Cassazione 16155/2009).
Anche nella sentenza 6282/ 2011 la Cassazione sostiene la natura ritorsiva del licenziamento. Al centro della vicenda, un lavoratore che aveva promosso un’azione legale nei confronti dell’azienda, pubblicando un articolo su un quotidiano locale. L’impresa procede al licenziamento disciplinare, con la motivazione che il dipendente aveva assunto una posizione rigida e polemica nei confronti della società. I giudici della Cassazione affermano che la normativa sul licenziamento discriminatorio è stata negli anni applicata a fattispecie che, pur non direttamente corrispondenti alle singole ipotesi espressamente regolate dalla legge, sono determinate in via esclusiva da motivo illecito, di ritorsione o rappresaglia, e costituiscono cioè un’ingiusta e arbitraria reazione essenzialmente di natura «vendicativa». Anche in questo caso, però, i giudici precisano che tocca al dipendente provare le proprie ragioni.
Spetta al lavoratore indicare i fatti a sostegno della sua tesi
Se è vero che nel tempo l’area dei licenziamenti discriminatori è stata allargata dalla giurisprudenza, d’altra parte il lavoratore fa i conti con il difficile compito di dimostrare le ragioni ritorsive o di rappresaglia del provvedimento espulsivo. In questo solco si è espressa la sentenza della Cassazione 17100/2011, che ha affrontato il caso di un dipendente licenziato per superamento del periodo di comporto.
L’operaio aveva impugnato il provvedimento, sostenendo che la vera causa del licenziamento non fosse l’assenza prolungata nel tempo, ma la sua iscrizione al sindacato. Secondo il ricorrente, il provvedimento espulsivo era stato intimato otto mesi dopo il superamento del periodo di comporto, ma a distanza di soli dieci giorni dalla sua adesione a una organizzazione sindacale. La Cassazione ha rinviato la causa alla Corte di appello, sostenendo che il giudice del merito deve valutare le ragioni di discriminazione sindacale, non potendo ritenere assorbita questa verifica nell’accertamento delle ulteriori giustificazioni offerte dal datore di lavoro nel provvedimento di licenziamento. In sostanza, precisa la sentenza, dovrà essere il lavoratore a offrire la prova della motivazione discriminatoria che ha condotto all’espulsione dall’azienda.
Proprio sul piano della prova, peraltro, si incontrano i maggiori ostacoli. Infatti, una motivazione discriminatoria celata da ragione economica potrebbe privare il dipendente licenziato del regime probatorio più favorevole, ponendo a suo carico un onere probatorio particolarmente difficile. In realtà, un correttivo in questo senso è contenuto nella normativa anti-discriminatoria introdotta in Italia in applicazione della direttiva 2000/78/Ce (decreti legislativi 215 e 216 del 2003, oggi riportati nel decreto legislativo 150/ 2011), applicabile anche ai licenziamenti, che, nel prevedere una speciale tutela processuale, interviene sul bilanciamento degli oneri probatori, stabilendo che «quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione».
Finora questa normativa è stata raramente richiamata nelle aule di giustizia poiché, prima della riforma, bastava dimostrare che il licenziamento non fosse sorretto da giusta causa o da giustificato motivo (almeno per le imprese che superano il numero di dipendenti fissato dalla legge) per ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro. Le eventuali ragioni discriminatorie non aggiungevano alcun beneficio al dipendente che impugnava il provvedimento espulsivo. Nell’attuale contesto post-riforma, le cose potrebbero però cambiare, anche alla luce della possibilità di ottenere la sanzione della reintegrazione in azienda.
Le pronunce
PROCEDURE COLLETTIVE SENZA CRITERI DISCRIMINATORI
Alcuni dipendenti di una società erano licenziati per riduzione collettiva dei posti di lavoro in base alla legge 223/1991. In seguito al licenziamento, la corte d’appello dichiarava l’illegittimità del criterio di scelta adottato dal datore di lavoro. In particolare, i dipendenti erano stati individuati nell’ambito del personale in esubero in base all’età, secondo un criterio di scelta certamente discriminatorio, prescindendo dalle situazioni di effettiva sovrabbondanza in singoli uffici o reparti in relazione ai profili professionali specificati.
La Corte di cassazione, confermando la pronuncia, ribadisce che la contrattazione collettiva è libera di scegliere qualsiasi criterio purché questo sia rivolto a tutelare gli interessi dei lavoratori nella logica della riduzione delle conseguenze negative del licenziamento, non ricadendo, pertanto, nell’individuazione di indici di selezione meramente discriminatori in base al possesso dei requisiti per l’accesso alla pensione.
Corte di Cassazione, sentenza 13 gennaio 2012, n. 391
MOTIVAZIONI PRETESTUOSE ESCLUSE ANCHE PER IL DIRIGENTE
Un dipendente di un’azienda di costruzioni aveva svolto mansioni da quadro e poi da dirigente per realizzare e gestire un porto turistico. Incrinato il rapporto fiduciario, l’azienda risolveva il rapporto di lavoro per asserita giusta causa, perché il lavoratore aveva fornito consulenze a società concorrenti. Per la Cassazione, la giustificatezza del licenziamento del dirigente non è nozione del tutto sovrapponibile a quella di giusta causa. Infatti, mentre la giusta causa consiste in un fatto che determina una grave lesione della fiducia del datore di lavoro nel proprio dipendente, tale da non consentire la prosecuzione, neppure temporanea, del rapporto, la ricorrenza della giustificatezza dell’atto risolutivo è da correlare alla presenza di valide ragioni di cessazione del rapporto lavorativo, come tali apprezzabili sotto il profilo della correttezza e della buona fede. Pertanto, conclude la sentenza, non è giustificato il licenziamento del dirigente per ragioni meramente pretestuose, al limite della discriminazione, o anche irrispettoso della procedura che assicura la correttezza dell’esercizio del diritto.
Corte di Cassazione, sentenza 19 settembre 2011, n. 19074
RIVENDICARE LA RETRIBUZIONE NON PUÒ CAUSARE IL RECESSO
Un dipendente è licenziato per aver rivendicato delle retribuzioni nei confronti del datore di lavoro. Il provvedimento espulsivo è giustificato per esigenze di riorganizzazione aziendale. Il lavoratore ricorre in tribunale, sostenendo la natura ritorsiva del licenziamento e chiedendo la reintegrazione e il pagamento della retribuzione globale di fatto, dal licenziamento fino al rientro in servizio. Sia il tribunale, sia la corte d’appello, ritengono che si tratti di un licenziamento determinato da un motivo illecito, con conseguente applicazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. La Cassazione, rigettando il ricorso dell’azienda, afferma che la disciplina della tutela reale dei licenziamenti è applicabile anche a quelli determinati da un motivo illecito determinante, e in particolare, a quelli determinati in maniera esclusiva da motivo di ritorsione o di rappresaglia per non aver corrisposto le retribuzioni spettanti. Inoltre, precisa l’estensore, la prova del carattere ritorsivo può essere desunta anche da una valutazione presuntiva fondata su indizi gravi, precisi e concordanti.
Corte di Cassazione, sentenza 1 dicembre 2010, n. 24347
CORRETTEZZA E BUONA FEDE NEL TAGLIO DELLE ATTIVITÀ
Un dipendente di un’agenzia di assicurazioni è licenziato per una riduzione di attività dovuta a un calo consistente delle attività e dei ricavi. In primo e secondo grado è dichiarata l’illegittimità del licenziamento per mancanza di giustificato motivo oggettivo. La Cassazione, individuando un’ipotesi di licenziamento discriminatorio per ritorsione nei confronti del dipendente, ribadisce che il datore intenzionato ad avviare una ristrutturazione aziendale sopprimendo alcuni posti per ridurre il costo del lavoro, non è libero di scegliere chi allontanare ma è tenuto in ogni caso a rispettare i principi di correttezza e buona fede. Nel caso di licenziamento per ragioni inerenti l’attività produttiva e l’organizzazione del lavoro, se il giustificato motivo oggettivo consiste nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, il datore di lavoro deve sempre improntare l’individuazione del soggetto o dei soggetti da licenziare ai principi di correttezza e buona fede, cui deve essere informato ogni comportamento delle parti coinvolte nel rapporto.
Corte di Cassazione, sentenza 28 marzo 2011, n. 7046
IL LAVORATORE DEVE PROVARE IL LICENZIAMENTO RITORSIVO
Padre e figlia sono entrambi dipendenti di un’azienda. La figlia è licenziata, in seguito alle rivendicazioni avanzate dal padre, che era stato assunto dallo stesso datore di lavoro e licenziato pochi giorni prima del provvedimento espulsivo nei confronti della lavoratrice. La vicenda arriva in Cassazione: la corte di legittimità ritiene ritorsivo il licenziamento pseudo-disciplinare, allargando in questo modo le ipotesi previste dagli articoli 4 della legge 604/1966, 15 della legge 300/1970 e 3 della legge 108/1990. In particolare, la Cassazione precisa che il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta, costituisce l’ingiusta e arbitraria reazione a un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona a esso legata e pertanto accomunata nella reazione. Ne deriva, conclude la sentenza, la nullità del provvedimento espulsivo, quando il motivo ritorsivo è stato l’unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito la prova, anche attraverso presunzioni.
Corte di Cassazione, sentenza 8 agosto 2011, n. 17087
LA RISOLUZIONE IN MATERNITÀ PUÒ NON ESSERE DISCRIMINATORIA
Tra le ipotesi di licenziamento discriminatorio rientra, in base alla giurisprudenza, quello previsto dall’articolo 54 della legge 151/2001. Le lavoratrici non possono essere licenziate dall’inizio della gravidanza fino al termine del periodo di interdizione dal lavoro, né fino al compimento di un anno di età del bambino. Il divieto di licenziamento è legato allo stato oggettivo di gravidanza, e la lavoratrice, licenziata nel periodo in cui opera il divieto, deve presentare al datore di lavoro una certificazione dalla quale risulti l’esistenza, all’epoca del licenziamento, delle condizioni che lo vietavano. La Cassazione ha sostenuto però che il mancato rientro della lavoratrice sul posto di lavoro al termine del periodo tutelato di maternità giustifica il licenziamento. Nel caso esaminato, la donna non era rientrata in servizio, senza fornire alcuna giustificazione per l’assenza. Già la corte d’appello aveva ritenuto legittimo il licenziamento, riconducendo la condotta della lavoratrice all’ipotesi della «colpa grave» prevista dalla legge sulla maternità e paternità per la legittima risoluzione del rapporto di lavoro.
Corte di Cassazione, sentenza 5 settembre 2012, n. 14905
Il Sole 24 Ore – 25 febbraio 2013