Il regolamento sul “Made In” – cioè la norma per introdurrel’obbligo di etichettatura di origine sui beni prodotti in Ue o importati dai Paesi extracomunitari (tranne i farmaci) – non potrà essere approvato entro il semestre di presidenza italiano. Era nell’aria, ma ora è una certezza.
Martedì, infatti, i “tecnici” del Consiglio Ue hanno dato il via libera alla richiesta – avanzata in una lettera lo scorso marzo da alcuniPaesi tradizionalmente contrari alla norma, come Regno Unito, Germania e Svezia – di un’ulteriore analisi sui costi che potrebbero derivare da una certificazione obbligatoria sull’origine dei prodotti delle imprese Ue. L’analisi dovrà vertere su 3 elementi: costi per le imprese («diretti e indiretti e, se possibile, in termini monetari» si legge nella lettera, «soprattutto per le Pmi e le micro-entità»), aggravi di adempimenti amministrativi e costi burocratici (« administrative burdens ») e percezione dei consumatori rispetto a come la “tracciabilità” dei prodotti potrebbe influire sui comportamenti d’acquisto. L’analisi non includerà interviste o indagini empiriche ma valutazioni di «istituzioni indipendenti, letteratura accademica e pareri provenienti da associazioni imprenditoriali e dei consumatori dei vari Paesi». Coordineranno i lavoro le direzioni generali Impresa e Tutela dei consumatori della Commissione Ue. L’analisi partità subito maitempi tecnici sono di 3-4 mesi. Le conclusioni, insomma, potrebbero arrivare proprio al termine della presidenza italiana (primadi Natale) o, con ogni probabilità, a gennaio. Quanto basta, ai Paesi contrari, per uscire “indenni” dal semestre guidato dal Paese, appunto l’Italia, che maggiormente beneficerebbe da un obbligo che premia il “Made in Italy”. Dopo l’ampio sì del ParlamentoUeadaprile, il regolamento Tajani-Borg è infatti in stallo.
Il Consiglio Ueè da sempre diviso tra chi – capofila l’Italia – assieme a Francia e Spagna trarrebbevantaggio da marchi”nazionali” (“Made in Italy”, “Made in France”) e oggi soffre la concorrenza asiatica low cost e chi, come Paesi puramente importatori (il blocco anglo-scandinavo) e la Germania (per lo più assemblatrice di lavorazioni straniere) pone il veto da anni. L’esito dell’analisi è incerto, il futuro del “Made In” non è già scritto, ma è di nuovo in bilico.
Il Sole 24 Ore – 19 settembre 2014