Il responsabile dell’Economia stanco della doppiezza del Pdl: in privato dice una cosa e in pubblico il contrario.
L’incertezza politica è tale, che il ministro dell’Economia si domanda se abbia senso raschiare il fondo del barile per far fronte alle pretese dei partiti, del centrodestra in particolare. La sua tentazione, confidata al «Corsera», è di salutare tutti quanti: se insistessero a ossessionarlo con le richieste, lui potrebbe dimettersi. Motivo immediato del contendere è l’aumento dell’Iva, che dovrebbe scattare dal 1 ottobre e Saccomanni considera parecchio difficile da evitare. Gradirebbe dalla maggioranza una «tregua» pure sull’Imu, in modo da affrontare la questione nella legge di stabilità. Ma ciò che più amareggia il ministro, palesemente a disagio nel suk della politica, è «il sentirsi dire in privato una cosa, specialmente da Alfano, e ascoltare poche ore dopo in pubblico l’esatto contrario». Il «tecnico» Saccomanni si rende conto che un po’ di gioco delle parti è inevitabile, ma a suo avviso qui si esagera, e lui esasperato non ci sta…
Qualcuno in realtà vede una drammatizzazione consapevole del ministro, che così prepara il terreno a una mediazione del premier. Forza Italia (talvolta insieme al Pd) tira la fune da una parte, lui dall’altra e Letta trova il punto di equilibrio… A conferma di questa teoria, Palazzo Chigi da una parte chiede al centrodestra di smetterla con «le pressioni», manifestando «vicinanza e piena sintonia» con Saccomanni; dall’altra, però, ribadisce l’esistenza di «margini per individuare soluzioni» alle grane sul tappeto. Dunque Letta si orienta a esplorare una via intermedia, che non è quella del Pdl ma nemmeno coincide con l’altra indicata dal ministro. Si tratta in fondo di cifre limitate. Rientrare nel tetto del 3 per cento esige la caccia a 1,6 miliardi; l’intera manovra per il 2013 non supera i 5 miliardi e mezzo. Più complesso sarà trovare la quadra per il 2014, però nulla è impossibile se ci sarà collaborazione. Così si torna al dubbio iniziale di Saccomanni: che senso ha raccattare un miliardo qua, uno là, se tra poco si va a votare?
Purtroppo, nessuno saprebbe dargli risposte, tantomeno garanzie. Brunetta, capogruppo azzurro, gli fa notare che lui «non è un capopartito, non è capo di niente» e comunque tali valutazioni strategiche spetterebbero al presidente del Consiglio» (concetto sviluppato da Cicchitto). Altri da destra, in maniera spiccia, esortano il ministro a togliere il disturbo. «Le dimissioni si danno, non si annunciano», lo pungono nel vivo Capezzone, Gasparri e la Santanché. Ma i berlusconiani, o quantomeno il loro boss, sembrano poco orientati a scatenare immediatamente la crisi. Fa testo Brunetta: «Mi piacerebbe che, se si dovesse rompere, ciò avvenisse non su una stupidaggine come l’Iva ma su una grande questione… Se andassimo alle urne perché si è sforato lo 0,1 per cento del rapporto deficit-Pil, la gente ci correrebbe dietro con i forconi». E se non dà fuoco le polveri l’ex-Pdl, non lo faranno certo i centristi. Casini: «Saccomanni fa bene». Il ministro D’Elia: «Ha ragione da vendere». Gli concede fiducia anche Epifani, insieme con un richiamo a non fare come «Robin Hood al contrario, togliendo ai poveri per dare ai ricchi».. Fassina avanza un’ipotesi concreta: ridiscutere l’Imu facendolo pagare al 10 per cento dei proprietari di immobili. In questo modo, spiega il vice-ministro, si eviterebbe l’aumento dell’Iva. Casomai il governo cadesse, «se ne dovrebbe fare un altro» per evitare «il commissariamento della trika», come è successo alla Grecia.
La Stampa – 23 settembre 2013