I manager delle società partecipate dallo Stato rischiano di trovare una nuova amara sorpresa nel decreto Irpef varato venerdì dal governo. Tra le norme del provvedimento del «bonus Renzi» è spuntata una sforbiciata-bis ai loro compensi, che potrebbero scendere fino a 120 mila euro.
L’articolo 13 del decreto prevede infatti, che a partire dal prossimo primo maggio tutti i compensi parametrati allo stipendio del primo presidente della Corte di Cassazione (311 mila euro), dovranno essere ricalcolati facendo riferimento al tetto di 240 mila euro. Meno di un mese fa il Tesoro ha emanato un provvedimento con il quale ha suddiviso in tre fasce di importanza le società controllate non quotate in Borsa. I manager delle società che ricadono nella prima fascia (in pratica Anas e Invimit) hanno diritto ad una retribuzione pari a quella del primo presidente della Corte di Cassazione.
Gli amministratori delegati delle altre due fasce, la seconda e la terza, possono avere un compenso massimo, secondo il provvedimento adottato da Pier Calo Padoan, pari all’80 per cento e al 50 per cento di quello del primo presidente della Cassazione. Il decreto Renzi, cambiando il riferimento impatta anche sui compensi di questi manager. Quelli che guidano le società di prima fascia passeranno, in meno di un mese, da 311 mila a 240 mila euro, con una perdita secca di quasi 70 mila euro all’anno. Quelli della seconda fascia, invece, scenderanno da 249 mila a 192 mila euro, perdendo in un solo compo 50 mila euro di retribuzione. Quelli della terza fascia, infine, passeranno da 155 mila a 120 mila euro di stipendio.
CHI COLPISCE
L’elenco dei manager che dovrà stringere di nuovo la cinghia è lungo. Il numero uno di Invitalia Domenico Arcuri, per esempio, si era appena ridotto lo stipendio a 300 mila euro, fissando il suo compenso sotto la soglia dei 311 mila euro. Adesso dovrà decurtarsi la retribuzione scendendo a quota 192 mila euro. Stesso discorso per Anas e Invimit, società quest’ultima, incaricata di dismettere attraverso fondi di investimento il patrimonio immobiliare pubblico e al cui vertice c’è l’ex capo di gabinetto di Giulio Tremonti, Vincenzo Fortunato. L’ultima versione del decreto approvato venerdì ha fatto salve, oltre alle società quotate in Borsa, anche quelle che emettono strumenti quotati su mercati regolamentati.
Grazie a questo «comma» resteranno fuori dai tetti agli stipenti i manager di Poste, Ferrovie e Cdp, anche se nel caso della prima società il neo presidente, Luisa Todini, ha accettato di guadagnare 240 mila euro l’anno. C’è da capire ora quale sarà la reazione dei manager coinvolti. Alcuni ritengono che i nuovi tetti siano una sorta di ritorsione nei loro confronti da parte della burocrazia ministeriale i cui emolumenti Renzi ha messo nel mirino. Solo che per i dirigenti della Pa, alla fine, i tetti «per fasce» agli stipendi sono all’ultimo minuto saltati dal provvedimento (erano stati inizialmente fissati a 110 mila euro per le seconde fasce e 190 mila euro per le prime fasce), mentre sono rimasti quelli per i manager che, adesso, si troveranno a guadagnare cifre inferiori ai super burocrati. Le aziende che guidano dovranno anche effettuare tagli lineari ai loro costi per restituire attraverso dividendi straordinari i risparmi ottenuti allo Stato. Secondo molti capi azienda un meccanismo difficile, soprattutto per le società efficienti che operano secondo regole di mercato e che potrebbero essere obbligate a tagliare investimenti e a trovarsi svantaggiate con i concorrenti.
Il Messaggero – 21 aprile 2014