di Claudio Magris. Forse la Medicina è la scienza più completa e non solo perché prima o dopo chiunque ha a che fare con essa, ma anche e soprattutto perché mai come quando si trova davanti alla malattia l’individuo è totalmente se stesso, implicato — direttamente o indirettamente — in tutta la realtà della sua persona, non solo fisicamente ma anche negli affetti e nel lavoro, nella possibilità e difficoltà di vivere la propria vita.
Come altre scienze — specialmente quelle dure, della natura — la medicina è sempre più legata alla tecnologia, nella cui crescente potenza e invadenza molti vedono un pericolo di disumanizzazione. L’Occidente, culla della tecnica, è anche la culla della sua critica più accanita.
Tecnica e medicina. Ne parlo con Gianfranco Sinagra, cardiologo di fama internazionale, che ha costantemente unito tecnica e umanesimo, notevolissima competenza scientifica e calda attenzione a tutte le sfumature del rapporto col paziente, alla complessiva qualità della sua vita. Un medico per il quale non esistono i pazienti, ma ogni volta il paziente. Professore di cardiologia e direttore del Dipartimento cardiovascolare e della Scuola di specializzazione dell’Università di Trieste, coordinatore del Centro clinico-sperimentale di cardiologia molecolare e traslazionale, collaboratore delle più importanti riviste internazionali e autore di lavori premiati, Sinagra si è occupato di scompenso cardiaco e cardiomiopatie, biopsia endomiocardica e terapia rigenerativa. Continua la gloriosa tradizione triestina di cardiologia, costruita dai suoi predecessori quali Klugmann e Camerini. Negli ultimi cinque anni presso la Cardiochirurgia di Trieste sono stati operati 2.800 pazienti, con una mortalità del 4% (comprensiva dei casi di estrema gravità), ampiamente inferiore alla media. Molti pazienti, pure di età avanzata, sono tornati a una vita normale. Naturalmente anche quel 4% ha un tragico peso, perché la vita di un individuo è un assoluto non quantificabile, ma quelle cifre rivelano l’eccellenza generale dell’istituzione, eccellenza il cui merito va a tutta l’équipe di medici, infermieri, operatori sanitari. La storia di un malato e della sua malattia non finisce con la sua dimissione dall’ospedale, dopo la quale inizia un’altra fase della tutela della sua qualità di vita, in cui s’intrecciano tecnologia e attenzione umana.
«Molti — gli dico incontrandolo nel suo studio triestino — esaltano e molti deplorano il crescente ruolo della tecnica nella Medicina, quasi essa sostituisse la macchina all’uomo e dunque indebolisse quel rapporto diretto, personale fra medico e paziente che è fondamentale per la guarigione e il ritorno alla vita normale…».
Sinagra – La tecnologia ha contribuito grandemente a migliorare la qualità e la durata della vita degli uomini, ma rivela pure limiti, di conoscenza e di intervento. Non conosciamo certo tutto delle malattie, non riusciamo a curarle tutte e talora nemmeno a identificarle. Ma questi sono limiti di tutto ciò che è umano. La Medicina non ha bisogno di essere «anche» arte, perché essendo governata dagli uomini ha in sé il germe della creatività nelle relazioni e nelle azioni. La Medicina autentica pone realmente, non demagogicamente, al centro il paziente e anche il sano, perché Medicina significa pure prevenzione e creazione di un ambiente adatto alla vita degli uomini. Naturalmente ci può essere la deformazione tecnocratica, l’idolatria statistica dimentica dell’individuo, l’interesse per la malattia che dimentica il malato. Forse anche la letteratura, espressione per eccellenza dell’umano, corre rischi diversi ma analoghi…
Magris – Certo. Un grande poeta, Milosz, ha detto che «spesso i poeti hanno un cuore freddo»; se scrivono una poesia per un bambino che muore, corrono il rischio di concentrarsi e commuoversi più sull’armonia dei loro versi che sulla sofferenza del bambino. La storia letteraria è costellata di sentimenti di colpa per tale mancanza di umanità nell’arte; si pensi a Thomas Mann, che ne era dolorosamente consapevole. Ma perché Lei dice «non demagogicamente»?
Sinagra – Perché spesso noi medici parliamo di relazionalità, empatia, ascolto, senza poi metterli in atto e creando invece un paternalismo che guarda al paziente dall’alto in basso, rendendolo mero oggetto delle decisioni cliniche oppure affidandolo astrattamente alla standardizzazione dei percorsi, agli algoritmi, perdendo di vista l’individuo concreto e il suo vissuto, sempre unico e irripetibile. E qui l’arte e la letteratura hanno molto da dire, quando si parla del singolo…
Magris – Certo, nella letteratura — ma in ogni arte e nella vita stessa — non esistono turbercolotici o cardiopatici come non esistono europei, innamorati o obesi, bensì esiste l’uno o l’altro individuo, che può essere nato in Europa, grasso o magro, soffrire di tisi o di pene d’amore, ma è sempre una singolarità irriducibile a una generica categoria. Ci sono grandissimi malati nella letteratura da cui un medico può imparare anche nel concreto esercizio della sua professione; la letteratura ha pure affrontato il carattere epocale, storico e simbolico, di alcune malattie, dalla peste alla tubercolosi, dalla sifilide al cancro o all’Aids. Si parla spesso di «fisiologia dell’esistenza», di rapporto e contatto umano. Ma come si fa a metterli concretamente in atto nei casi di gravità acuta estrema?
Sinagra – Nella fase acuta — nell’infarto, nell’ictus, nel politrauma, nello shock — lo spazio e il tempo per una vera relazione sono esigui e la salvezza della persona dipende dalla capacità del medico di risolvere il problema acuto in tempi rapidi e da un contesto organizzativo adeguato. Eppure anche in queste fasi convulse il valore di pochi minuti o anche secondi di colloquio, sguardi, umana comprensione nel rapporto col paziente o i familiari è fondamentale. Nel percorso successivo — cronicità, domiciliarizzazione delle cure — è essenziale il ruolo dell’infermiere oggi centrale nella Medicina, come quello di altri professionisti sanitari. Nel percorso globale di vita del paziente restituito, dopo gli interventi urgenti, a una vita normale con una lunga prospettiva di sopravvivenza, sono importantissimi l’ascolto, l’aiuto a elaborare psicologicamente la malattia, la correzione dei fattori di rischio. Questo è scientificamente dimostrato.
Magris – Anche in Medicina, come in ogni campo dell’esistenza e della scienza, c’è l’errore. Un errore che può avere gravissime conseguenze — causare la morte — mentre un errore nel mio campo non fa morire nessuno, neanche se dicessi che Dante ha scritto I Promessi Sposi . Come vive l’errore in medicina?
Sinagra – Come la misura della fallibilità degli uomini, dell’estrema eterogeneità e imprevedibilità degli scenari, dell’incompletezza delle conoscenze. Ovviamente va distinta la negligenza o l’ignoranza dall’errore inatteso. Tutti compiamo errori; l’importante è «imparare da essi», diceva Popper. La sfida della complessità ci può inibire o vederci attivi nell’agire e perciò stesso esposti all’errore, che va contenuto al massimo con l’impegno di studio, la solidità dell’organizzazione, l’educazione medica permanente, la continua revisione critica. Lavoro difficile, cui non sempre siamo preparati.
Magris – La qualità della vita è fondamentale, ma, per una diffusa distorsione di questo concetto, può diventare un principio pericoloso, l’arroganza di decidere per gli altri quale sia il livello di tale qualità al quale la vita inizia a essere degna di venir vissuta. In tal modo si è giunti alla discriminazione, anche all’eliminazione di persone prive o considerate prive di tale livello. L’eutanasia nei confronti dei minorati, dei disabili…
Sinagra – Concordo: la qualità di vita non è una variabile assoluta, oggettiva, standardizzabile. Spesso questa argomentazione è uno scudo. Particolarmente quando ci si riferisce agli anziani o a patologie croniche o degenerative: la valutazione del livello di qualità di vita dovrebbe essere parte di una valutazione condivisa, umanamente intensa, che sappia avere attenzione a entrambi gli estremi dello spettro: evitare di intensificare le cure oltre un limite che configurerebbe inutile accanimento terapeutico, ma anche evitare di precludere trattamenti raccomandati ed efficaci sulla base di pregiudizi, discriminazioni economiche o razziali, emotività, ideologie.
Magris – Non le sembra che l’eutanasia, in generale, stia diventando una parola d’ordine obbligata per dimostrarsi aperti e progressisti, una nuova forma di essere benpensanti?
Sinagra – Rifiuto l’idea di provocare la morte. La vita è per me dono, con la sua straordinaria ricchezza e generosità di esperienze, incluse la sofferenza e la malattia. La Medicina deve avere attenzione ad alleviare le sofferenze con i numerosi strumenti di cui dispone. C’è una bellissima pagina del Diario di Etty Hillesum, che mi viene spesso in mente: «La vita non può esser colta in poche formule… è infinitamente ricca di sfumature, non può essere imprigionata né semplificata».
Il Corriere della Sera – 11 settembre 2014