La fine dell’articolo 18, negato a tutti i nuovi assunti con il Jobs Act, non ha innescato la corsa al licenziamento. Lo dicono i dati forniti dal Ministero del Lavoro, anche se – per misurare gli effetti di una abolizione che ha fatto discutere per anni governi, aziende e sindacati – bisogna tener conto del fatto che, per il momento (grazie agli sgravi contributivi triennali per chi assume a tempo indeterminato), alle aziende licenziare non conviene.
La tendenza risulta in maniera netta dalle cifre che il Ministero del Lavoro pubblica ogni tre mesi basandosi sulle «Comunicazioni obbligatorie» fornite dalle aziende ogni volta che stipulano o recedono da un contratto. Nel 2015 le interruzioni dovute a licenziamento sono state 841.781, l’8,4 per cento in meno rispetto al 2014. Se si guarda poi solo all’ultimo quadrimestre il calo è ancora più consistente: la riduzione dei licenziamenti sullo stesso periodo del 2014 ha toccato il 14,9 per cento. Ne hanno tratto vantaggio più gli uomini che le donne, visto che – sempre negli ultimi mesi del 2015- i licenziamenti maschili sono diminuiti più del 18 per cento, mentre quelli femminili solo dell’8. E nello stesso periodo sono lievitati (anche qui il peso dello sgravio contributivo è rilevante) i contratti a tempo indeterminato: le nuove assunzioni stabili nel quarto trimestre sono state 739.880 con una crescita del 100,9 per cento sullo stesso periodo del 2014. Allo stesso tempo sono crollate le collaborazioni (meno 40,4 per cento) e i contratti di apprendistato (meno 17,7 per cento) facendo rilevare che non di soli nuovi posti si tratta, ma anche di trasformazioni di contratto.
Nell’intero 2015 i contratti stabili in più a fine anno sono stati 271.791 (cifra cui si arriva sottraendo dalle nuove assunzioni a tempo indeterminato le nuove cessazioni di contratti a tempo indeterminato dell’anno). Un dato che tiene conto di tutto il lavoro dipendente (compreso il lavoro domestico, gli agricoli e la pubblica amministrazione), ma che non conteggia le trasformazioni di contratto (da rapporto a termine a tempo indeterminato).
Ad un anno dell’entrata in vigore del Jobs Act, il governo parla di successo: «È un bilancio molto positivo» ha commentato il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio. «Oltre 750.000 contratti a tempo indeterminato danno una cifra straordinaria di cambiamento nel sistema italiano. La creazione di centinaia di migliaia di posti di lavoro nuovi, oltre alle persone che sono rientrate al lavoro visto il dimezzamento della cassa integrazione, danno dei numeri che non sono discutibili sull’efficacia di queste misure. Se tutti gli anni andassero così avremmo di che festeggiare».
Non ne è convinto il sindacato. Per Susanna Camusso, leader della Cgil, «sarebbe drammatico» se non ci fosse un calo dei licenziamenti dopo tutte le ristrutturazioni effettuate e a fronte di un «non peggioramento» della situazione occupazionale. E se per Annamaria Furlan della Cisl i dati «sono positivi » ma «non basta» perché bisogna trovare lavoro ai 3 milioni che non ce l’hanno, per la Uil di Carmelo Barbagallo il merito va tutto alle agevolazioni fiscali concesse.«Ci mancherebbe, pure, che dopo tutti i miliardi impiegati ci fossimo trovati di fronte a un insuccesso – ha detto – Abbiamo solo una preoccupazione, ora: cosa succederà quando le agevolazioni cesseranno?»
Damiano: “Dati positivi ma sono drogati dagli incentivi”
«Sicuramente il Jobs Act ha spinto l’occupazione in un periodo di crisi e la diminuzione dei licenziamenti è una notizia positiva. Ma attenzione al rischio di tornare all’antico, quando gli incentivi cesseranno, dopo aver drogato il mercato. E di creare una nuova classe di precari voucherizzati». Cesare Damiano, presidente pd della commissione Lavoro della Camera ed ex ministro del Lavoro, chiede intanto una «lettura non controversa» dei numeri.
Presidente, c’è cacofonia?
«Ministero del Lavoro, Inps e Istat divulgano dati basati su metodologie diverse. Ad un anno dall’entrata in vigore del Jobs Act sarebbe opportuno che il governo elaborasse una fonte statistica omogenea».
I licenziamenti calano.
«Ho sempre sostenuto che gli imprenditori assumono a tempo indeterminato in base alla qualità dell’incentivo più che sull’articolo 18. Evidentemente nel 2015 ha prevalso la ragione economica».
Quali fronti aperti restano?
«Rendere strutturali gli incentivi, anche bassi, per dare certezze agli imprenditori. Regolare i voucher perché stanno sostituendo il lavoro subordinato: siamo passati da 500 mila nel 2008 a 115 milioni nel 2015. E intervenire per prolungare gli ammortizzatori sociali. La crisi non è finita».
Repubblica – 8 marzo 2016