
Mense, ogni giorno sprechi per 360 mila euro. Nove alunni su dieci dicono di avanzare sempre qualcosa. Il 22% dei pasti serviti finisce nella spazzatura
Antonio Galdo. Il conto è di 360mila euro al giorno. È il costo per il sistema scolastico italiano di uno degli sprechi alimentari più scandalosi: il cibo delle mense per gli alunni che puntualmente finisce nella spazzatura. Un rito silenzioso, quotidiano, che mescola indifferenza e cattiva organizzazione con l’implicita, e sbagliata, convinzione che tanto alla fine nessuno paga.
Ma come si arriva a questa cifra da capogiro in un Paese dove tra l’altro l’80% degli alunni in alcune regioni, soprattutto del Sud, non ha accesso al servizio delle mensa scolastica? Partiamo da una prima assurdità di carattere generale: più della metà delle scuole ignora, o finge di ignorare, l’esistenza di avanzi di cibo per bambini e ragazzi. Silenzio tombale. Poi, grazie a un’indagine sul campo di Cittadinanzattiva, in collaborazione con Oricon (l’Osservatorio creato dalle principali aziende del settore della ristorazione collettiva), si scopre che il 22% dei pasti serviti nelle scuole viene infilato nel secchio dell’immondizia. Considerando che ogni giorno si preparano, e si pagano, menù per 2 milioni di alunni consumatori della refezione scolastica, con un costo medio di 4,6 euro a testa, si arriva dritti ai 360mila euro sprecati ad ogni suono di campanella per segnalare l’orario della tavola. I bambini non sanno mentire con facilità, e quindi soltanto il 10% degli alunni interpellati da Oricon ha potuto affermare di non lasciare mai nulla nel piatto, mentre il 63% degli insegnanti confessa di essere ben consapevole dello scempio. Di quel cibo sprecato che, secondo la scomunica di papa Francesco, altro non è che «cibo rubato alla mensa dei poveri». Parliamo di pane (20%), pasta (19%), carne (25%), senza alcuna esclusione di piatti. Con porzioni spesso scollegate dalle reali esigenze degli studenti, e in altri casi considerate poco digeribili o immangiabili.
Ancora due dati significativi: verdure e minestre di verdure non piacciono al 63% degli alunni e il pesce resta nel piatto, e poi finisce nell’immondizia, nel 47% dei casi. Si parla tanto di dieta mediterranea, ma a leggere i risultati di una statistica costruita andando in giro nelle scuole, capiamo che le buone abitudini alimentari non sono all’ordine del giorno, prima nelle case e poi, di riflesso, nelle scuole.
Forse il ministero dell’Istruzione dovrebbe riflettere su questi dati, mobilitando per esempio i provveditorati, in sintonia con le amministrazioni locali che gestiscono in varie forme il servizio delle mense scolastiche, per cercare di individuare gli argini a un fenomeno così capillare. Intanto, con il classico timbro dell’Italia fai-da-te, ci sono tante scuole, in tutte le regioni, nei diversi livelli di ordine e grado, che stanno mettendo in campo le loro, autonome, contromisure. Anche con ottimi risultati. Istituti che, per esempio, hanno creato una triangolazione tra la scuola, le società della refezione e le associazioni del volontariato (in prima fila la Caritas) per recuperare una parte dei pasti avanzati per poi donarli alle famiglie bisognose. Ai veri poveri. Ci sono scuole che riescono a calibrare le porzioni, senza che qualcuno gridi alla carestia scolastica, e in questo modo distillano anche qualche lezione di educazione alimentare, per la quale in Italia si fa molta teoria a buon mercato e pochissima pratica. E ci sono scuole dove agli alunni vengono distribuite le doggy bag, ovvero i contenitori per portare a casa il cibo pagato e avanzato. Diverse soluzioni, insomma, che se fossero messe a sistema, potrebbero cancellare il conto, i famosi 360mila euro al giorno, dell’orrore dello spreco di cibo a scuola. Proprio dove si dovrebbe insegnare, dall’infanzia e prima che sia troppo tardi, a non sprecare.
La stampa – 13 dicembre 2017