Il dipendente che non ha goduto del riposo settimanale per le giornate festive in cui ha svolto servizio di reperibilità non ha diritto ad alcun risarcimento danni tranne che dimostri in concreto quelli che ha effettivamente dovuto patire. Sono queste le indicazioni contenute nella sentenza della sezione lavoro della Corte di cassazione n. 20736 dello scorso 14 ottobre.
La decisione
La pronuncia, che sostanzialmente ribadisce gli orientamenti della giurisprudenza (tanto è vero che conferma nel caso specifico quanto stabilito sia dal giudice di primo grado che dalla Corte di Appello) merita di essere segnalata per la differenza che sussiste tra le prestazioni lavorative e la reperibilità. Questa ultima infatti non può essere definita tout court come una prestazione lavorativa, in quanto il dipendente non svolge alcuna attività dovendosi semplicemente porre a disposizione del datore di lavoro per una eventuale chiamata. Ma comunque è innegabile che siamo in presenza di una limitazione della autonomia dello stesso, il che è dimostrato dal fatto che egli si colloca comunque a disposizione dell’ente. E infatti le disposizioni contrattuali prevedono una remunerazione del servizio svolto in reperibilità, remunerazione che ricordiamo raddoppia nelle giornate festive. Inoltre le norme contrattuali (oggi contenute nel Ccnl 14 settembre 2000, code contrattuali), oltre alla disciplina dei compensi spettanti per le attività svolte in reperibilità, stabiliscono che il dipendente abbia diritto ad una giornata di riposo settimanale compensativo nel caso in cui la reperibilità sia stata svolta durante tale giornata. Ma che dalla fruizione di un giorno di riposo compensativo non deve derivare come conseguenza alcuna riduzione del debito orario settimanale. Ed ancora esse stabiliscono che spetta al dipendente stesso richiedere la fruizione di tale giornata.
La natura della reperibilità
Al centro della sentenza vi è la considerazione che la reperibilità non è una prestazione interamente assimilabile a quella di lavoro. In questa direzione vanno anche, si deve aggiungere, le previsioni del Dlgs 66/2003, che non le considera nel tetto massimo dell’orario individuale. Viene evidenziato che lo svolgimento di servizio in reperibilità, in particolare ove svolto nel giorno di riposo settimanale, determina sicuramente una condizione di stress psico fisico, ma tale condizione non è in alcun modo paragonabile a quella che è determinata dallo svolgimento di una effettiva prestazione lavorativa. Si deve aggiungere che in questa direzione vanno le norme contrattuali che, per l’appunto, riconoscono questo stress consentendo il recupero della giornata di riposo settimanale, ma non equiparando tale attività a quelle di lavoro, visto che non consentono la riduzione della durata dell’orario settimanale, neppure in misura parziale.
La conseguenza che la sentenza trae è che siamo al di fuori dell’ambito di applicazione dell’articolo 36 della Costituzione, cioè della disposizione che obbliga la fruizione di almeno un giorno di riposo settimanale. E, di conseguenza, non si può dare come “presupposto” la maturazione di un danno conseguente allo stress psico fisico che il dipendente ha subito. Occorre che lo stesso dia al riguardo una adeguata dimostrazione, il che non si realizza sicuramente nel caso in cui il dipendente non ha chiesto la fruizione di tale giornata. Condizione che ricordiamo, non a caso, il Ccnl pone in questi casi a base della concessione del giorno di riposo settimanale.
Il Sole 24 Ore – 21 ottobre 2015