In tuta bianca contro il mostro. Tra i letti d’ospedale, nei villaggi più remoti, nelle metropoli a combattere il virus che uccide tra mille sofferenze in Africa, e spaventa il resto del mondo. Sono i medici in trincea, uomini e donne che hanno scelto una battaglia impari. Contro una malattia ancora senza rimedio ma anche contro le proprie paure.
Per molti di loro l’Ebola fino all’altro ieri era stato solo un capitolo da studiare su un libro all’Università. Oggi se lo trovano davanti e le loro parole non riescono a nascondere l’inquietudine. Sono pochi e prima di tutto hanno bisogno di rinforzi, come sottolineano da Medici senza frontiere: «La necessità di personale cresce, ogni giorno di più».
C’è chi è partito perché non voleva finire la carriera a fare visite in uno studio privato, chi già durante Medicina ha capito quale fosse la sua strada, chi semplicemente voleva cambiare aria e quando glielo hanno chiesto ha detto sì e si è licenziato dall’ospedale. Ecco chi sono gli italiani negli scafandri delle foto sui giornali. Si tratta di poche persone, prima di tutto. In 9 sono in Africa occidentale per Msf, 2 lavorano per Medici con l’Africa-Cuamm, meno di 10 per l’Oms. Poi ci sono quelli di Emergency: 9 dipendenti dell’associazione sono in Sierra Leone per l’ospedale che fa ortopedia e traumatologia ed è colpito dall’epidemia indirettamente. Organizzazioni internazionali e Oms, in tutto poco più di 300 addetti in Africa, si appoggiano molto sul personale sanitario presente negli stati colpiti. Il problema sono i numeri. In Liberia c’è un medico ogni 71.500 abitanti, in Sierra Leone uno ogni 45.000 in Guinea uno ogni 10.000. Negli Usa, ha sottolineato il Wall Street Journal, ce n’è uno ogni 408.
Gli italiani in missione non sono solo medici, tra di loro ci sono infermieri ed esperti di organizzazione sanitaria ma anche antropologi. «Perché sono venuto qui? Perché la salute è un diritto di tutti, anche di questa gente». Paolo Setti Carraro è chirurgo ed aspetta l’arrivo di altri colleghi perché è rimasto solo con un’ostetrica italiana nell’ospedale di Punjehun dopo che un pediatra inviato come lui dal Cuamm è voluto tornare a casa. Troppa paura del virus. «Abbiamo avuto 7 morti. Il nostro lavoro non è solo attività di cura. Facciamo educazione sanitaria di chi vive qui, organizziamo squadre per andare a controllare potenziali infetti nei villaggi». Spesso ci si trova di fronte reazioni violente della popolazione, ad esempio qualcuno non vuole che vengano toccati i morti, ma chi viene ucciso dall’Ebola resta infetto per 24 ore. «La paura c’è perché sappiamo che il rischio di contagio è molto alto. Ma alla fine credo che i più spaventati siano gli occidentali, perché temono che arrivi da loro. Per questo sono così preoccupati di cosa succede in Africa». La storia di Setti Carraro merita di essere raccontata. Lavorava al policlinico di Milano, era diventato facente funzioni della chirurgia d’urgenza e generale. «Ma invece di nominare me primario hanno scelto il solito universitario. Così a 58 anni me ne sono andato in pensione. Però non volevo smettere e allo stesso tempo non avevo nessuna intenzione di mettermi a fare attività privata. Ho sempre creduto solo nella sanità pubblica». Così alla soglia dei 60 è partito per l’Afghanistan con Emergency, poi è andato in Sierra Leone e in Sudan. «Ora combatto questa maledizione, che devasta un sistema sanitario già barcollante bloccando le campagne anti vaccinazione e tenendo le persone lontane dagli ospedali. La famiglia? Ho una moglie meravigliosa che mi consente di essere qui. E quando tornerò a casa, tra tre mesi, starò insieme alla nostra bimba di 11 anni mentre lei andrà in Afghanistan. E’ anestesista».
Msf oggi ha 9 italiani in Africa occidentale, in totale ne ha mandati una ventina. «Sono rientrato un mese fa dalla Guinea e il primo settembre vado in Liberia. Ho voglia di tornare là», dice Saverio Bellizzi. E’ un epidemiologo che si è appassionato all’idea di viaggiare nei paesi in difficoltà grazie a un suo professore di Medicina. «Mai avuto dubbi: la mia strada era quella. Una cosa come l’Ebola non l’avevo mai vista. Prima di partire avevo una leggera apprensione ma quando sono arrivato in Africa e ho iniziato a conoscere la zona dove lavoravo e la malattia mi sono tranquillizzato. A quel punto la paura scompare». I tecnici di Msf fanno missioni di due mesi. «Abbiamo connazionali in Guinea, Sierra Leone e Liberia — dice Stefano Zannini, direttore supporto operazioni di Msf — Ora che l’epidemia prende piede in Nigeria cerchiamo 25 persone da tutto il mondo disponibili ad andare in quel paese. Ma abbiamo bisogno di aiuto in tutti i Paesi colpiti, ci vogliono rinforzi, non saprei dire nemmeno quante persone. Chi vuol venire è ben accetto. in Liberia siamo oltre la catastrofe. Gli ospedali chiudono, il personale scappa, ci sono morti per strada. Selezioniamo valutando il curriculum e facendo un colloquio ed esercitazioni che per l’Ebola durano 3 giorni. I medici devono parlare inglese o francese, e devono abituarsi a lavorare in squadra, conducendo una vita semplicissima. Questo virus fa paura e finché non arrivano sul campo non sappiamo come rendono i medici. Studiare una malattia del genere così da vicino permette di sviluppare una competenza professionale importante, purtroppo però in Italia queste esperienze non vengono molto riconosciute. È addirittura difficile avere l’aspettativa dal proprio ospedale per fare una missione del genere. Così è capitato che una persona per partire con noi si sia licenziata».
Repubblica – 20 agosto 2014