Repubblica. L’ultimo allarme l’ha lanciato l’agenzia di rating Standard & Poor’s, con un report dal titolo piuttosto eloquente: «Lo shock mondiale dei prezzi alimentare non durerà mesi, ma anni». Gli italiani ne hanno già avuto un primo assaggio nelle ultime settimane, osservando inermi la corsa folle dei prezzi agli scaffali. Ma cosa c’è esattamente dietro al rincaro dei prodotti del nostro carrello della spesa e quanto incide il conflitto in corso in Ucraina?
«Bisogna partire da una considerazione — osserva Giorgio Mercuri, presidente dell’Alleanza delle cooperative Agroalimentari — gli aumenti dei prezzi delle materie prime erano iniziati già molti mesi prima dello scoppio della guerra ed erano dovuti a una massiccia esplosione della domanda dopo l’emergenza Covid e all’incremento dell’energia, che già a dicembre aveva toccato livelli altissimi, e che la guerra ha contribuito a cristallizzare».
Il balzo del prezzo dei beni energetici che sostiene la maggior parte dei rincari dei beni alimentari è però solo una parte del problema. «Se pensiamo alla pasta, i rincari di oggi si devono soprattutto alla crisi del raccolto in Canada, che è uno dei principali fornitori di grano del nostro Paese, a causa della siccità del 2021. A questo si aggiunge anche l’aumento del costo del gas, che si fa sentire sulle spese per il processo di asciugatura, e quelle del packaging», sottolinea ancora Mercuri. E sempre il clima, insieme alla guerra, è responsabile di parte dei rincari osservati su frutta e verdura. La carenza di acqua ha costretto a un maggior dispendio energetico per consentire l’irrigazione dei campi. Con un effetto immediato sulle bollette per via del rincaro dell’energia. Allo stesso tempo però su frutta e verdura ha inciso in maniera determinante anche il rialzo del prezzo dei fertilizzanti, di cui la Russia è il principale esportatore mondiale.
E se per carne e latte l’Istat ha registrato aumenti su base annuale del 9,1% e del 6,7%, dietro ai rincari ci sono fattori che, almeno geograficamente, sono ben lontani dall’Ucraina. Basta pensare alla stop dell’export di farine e olio di soia deciso a marzo dall’Argentina, il cui effetto si è fatto sentire sui costi dei mangimi, una delle voci di costo più rilevanti per questo tipo di industria.
C’è poi il rischio di una bomba a scoppio ritardato. «Beni come il vino o le conserve scontano i rincari soltanto per quanto riguarda i costi legati al packaging ma per quanto riguarda le materie prime i prezzi sono ancora quelli del passato», spiega Mercuri aggiungendo di aspettarsi nuovi aumenti «a partire dall’autunno». Intanto però le industrie devono fare i conti con il boom del prezzo del vetro, le cui quotazioni erano giàschizzate per il picco di domanda legata alle fiale dei vaccini anti-Covid e oggi sono alle prese con lo stop alla produzione in Ucraina, uno dei maggiori produttori europei di bottiglie.
Anche per i formaggi la sorpresa potrebbe scattare nel futuro prossimo. Per i più stagionati vale ancora il prezzo del latte del passato e l’unico effetto si ha per quanto riguarda icosti di stoccaggio. In altre parole: i rincari per la forma di Parmigiano Reggiano prodotta 18 mesi fa e che ora riposa per la stagionatura nei magazzini della provincia parmigiana riguardano solo le spese per la conservazione oltre a quelle dei trasporti. Ma per le forme prodotte oggi e in vendita nei prossimi anni la questione potrebbe essere molto diversa.
Oltre alle ricadute indirette legate al costo dell’energia, il conflitto ha però anche effetti immediati su alcuni prodotti. «Ci sono due principali problemi: uno è il mais, visto che il 15% di quello destinato alla mangimistica arrivava da Kiev, l’altro è l’olio di semi di girasole, di cui siamo dipendenti dall’Ucraina per il 70%», spiega Lorenzo Bazzana, responsabile economico di Coldiretti.Il mondo agricolo però non si è fatto trovare impreparato e per fronteggiare lo stop dalle forniture dall’Est ha rispolverato coltivazioni del passato: «Soprattutto in Puglia e nelle Marche si è tornato a seminare girasoli », conclude Mercuri «In aree in cui la coltura era stata abbandonata perché poco remunerativa, ora è diventata una necessità».