Ma cosa c’è scritto in questo ormai fatidico (almeno per i destini incrociati di medici, infermieri & Co) comma 566 della legge di Stabilità del Governo Renzi?. Leggiamolo insieme: “Ferme restando le competenze dei laureati in medicina e chirurgia in materia di atti complessi e specialistici di prevenzione, diagnosi, cura e terapia, con accordo tra Governo e Regioni, previa concertazione con le rappresentanze scientifiche, professionali e sindacali dei profili sanitari interessati, sono definiti i ruoli, le competenze, le relazioni professionali e le responsabilità individuali e di équipe su compiti, funzioni e obiettivi delle professioni sanitarie infermieristiche, ostetrica, tecniche della riabilitazione e della prevenzione, anche attraverso percorsi formativi complementari. Dall’attuazione del presente comma non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.
In sostanza il Governo e il Parlamento hanno deciso di dare forza di legge all’obiettivo di ridefinire le competenze professionali dei sanitari già oggetto dei tavoli tecnici Governo Regioni. Un lavoro che inizia il 15 dicembre 2011, con la prima riunione del tavolo, e da cui sono scaturite diverse proposte di riassetto professionale (la prima sulle competenze infermieristiche risale al mese di aprile 2012). Un perscorso, da allora ad oggi, caratterizzato da alti e bassi, fino all’ultima ipotesi di accordo sulle competenze infermieristiche tutt’ora in attesa di essere trasmesso alla Stato Regioni.
Fin da subito i medici hanno visto con diffidenza questi lavori, timorosi di perdere spazio e il tutto, hanno sempre detto, più per motivi economici, “gli infermieri costano meno di noi”, dicono, che per un’effettiva esigenza di ridisegnare il “chi fa che cosa” in sanità.
Di contro le professioni sanitarie, pur con qualche distinguo anche al loro interno, hanno puntato molto su questi accordi che ritengono la prima significativa risposta alla loro evoluzione formativa e professionale.
Una sorta di compromesso sembrava scaturito dalla cosiddetta “Cabina di Regia” che a novembre 2014 viene condivisa da Governo e Regioni come luogo di confronto permanente di tutte le professioni sanitarie, medici compresi.
Significative tre affermazioni contenute nell’atto di nascita della Cabina di Regia:
– il ruolo e le responsabilità diagnostiche e terapeutiche sono in capo ai medici anche per favorire l’evoluzione professionale a livello organizzativo e ordinamentale;
– gli infermieri e le altre professioni sanitarie, negli ambiti delle specialità già delineate dagli specifici profili professionali di riferimento, sono garanti del processo assistenziale, ed è per questo che è necessaria e non più rinviabile l’evoluzione professionale verso le competenze avanzate e di tipo specialistico;
– i medici, i veterinari, i dirigenti sanitari, gli infermieri e gli altri professionisti della salute riconoscono i relativi e specifici campi di intervento, autonomia e responsabilità anche alla luce della costante evoluzione scientifica e tecnologica, e concorrono a garantire unitarietà del processo di cura e assistenza attraverso la definizione multi professionale obiettivi, e attraverso criteri di verifica e valutazione degli esiti e dei risultati.
Ma nei fatti questo luogo d’incontro ha prodotto poco fino ad oggi. E la polemica sul “chi fa che cosa” tra medici e altre professioni è di nuovo esplosa.
La rassegna stampa e le prese di posizione
Stabilità. Anaao: “Con colpo di mano si erodono competenze mediche nella diagnosi e cura”
Il Ministero della Salute ha infilato nella stabilità il comma 566 che intenderebbe affidare alla competenza dei medici, in materia di prevenzione, diagnosi, cura e terapia, esclusivamente gli atti complessi e specialistici. Lo scopo è quello di trasferire gli atti medici di base ad altre professioni sanitarie trascurando che anche un atto semplice si può complicare e diventare complesso
Una parte del mondo sindacale dei medici dipendenti e di quelli convenzionati mentre è in spasmodica attesa delle modifiche legislative a tutela del ruolo e della professione del medico, promesse dall’articolo 22 del Patto della salute, preferisce lasciare in assoluto silenzio il colpo di mano con il quale il Ministero della Salute ha infilato nell’unico articolo della Legge di stabilità il comma 566, malgrado il suo contenuto ordinatorio, che intenderebbe affidare alla competenza dei laureati in medicina e chirurgia, in materia di prevenzione, diagnosi, cura e terapia, esclusivamente gli atti complessi e specialistici. Di fatto, gli atti medici vengono distinti in semplici e di base, da una parte, e complessi e specialistici dall’altra, allo scopo evidente di trasferire i primi ad altre professioni sanitarie, trascurando che in medicina anche un atto semplice si può complicare e diventare complesso. Il livello dove si posizionerà l’asticella che dovrebbe separare i due campi non verrà definito con una legge del Parlamento ma attraverso un accordo tra Stato e Regioni, previa concertazione, ovviamente non vincolante, con le rappresentanze scientifiche, professionali e sindacali (di quali categorie?).
Come spiega bene Saverio Proia, in un articolo su QS, “quali debbono essere queste competenze non può essere cristallizzato in una norma di legge bensì non può che essere il risultato di un articolato e partecipato processo dinamico e non statico di identificazione scientifico, professionale e giuridico che la stessa norma potrà avviare con il consenso ed il protagonismo in primis della stessa professione medica e degli altri dirigenti sanitari”. Qui non stiamo parlando di riconoscimento delle competenze specialistiche degli infermieri, legittimo, ma dell’erosione più o meno consistente di competenze mediche nel campo della diagnosi e della cura. Tra l’altro, seguendo il ragionamento di Proia, sembra che il terreno maggiore di interesse per questa traslazione di competenze non sia tanto il settore dell’acuzie e quindi l’ospedale, ma piuttosto quello della cronicità e del territorio.
Nel ringraziare il Ministero della Salute per questo generoso e disinteressato intervento, potrebbe essere utile per tutti i medici chiedersi se sia necessaria una legge vera e propria o sia più appropriato lasciare le cose così come sono, e cioè che sia la giurisprudenza caso per caso a valutare i contenziosi sul modello del diritto anglosassone del “common law” e del “case law”, che è poi l’orientamento della maggior parte dei Paesi avanzati. La Corte Costituzionale (Sentenze 282/2002 e 338/2003) ha stabilito il principio dell’autonomia terapeutica del medico rispetto persino al legislatore: “Non è di norma il legislatore a dover stabilire quali sono le pratiche ammesse, con quali limiti e a quali condizioni poiché la pratica dell’arte medica si fonda sulle acquisizioni scientifiche e sperimentali che sono in continua evoluzione. La regola di fondo di questa materia è costituita dall’autonomia e dalla responsabilità del medico che con il consenso del paziente opera le scelte professionali basandosi sullo stato delle conoscenze a sua disposizione”.
È riservata, quindi, al medico e solo ad esso la scelta diagnostica e terapeutica e la libera valutazione del singolo caso sottoposto al suo esame e l’adeguamento dei protocolli alle condizioni particolari del paziente che ha in cura, senza alcuna distinzione tra atti semplici o complessi ovvero tra quelli di base o specialistici. Infatti il suo rapporto con il paziente è tuttora l’asse centrale attorno a cui ruota tutto, e tutta l’organizzazione dei servizi e i rapporti multiprofessionali che vi si sviluppano servono a facilitare l’opera del medico e questo infastidisce ancora di più. Peraltro oggi sempre di più il paziente ricerca un medico che si faccia carico adeguatamente del suo problema.
Questi principi di autonomia e responsabilità sono stati ribaditi e rinforzati in numerose sentenze della Suprema Corte di Cassazione (Sentenze 1873/2010 – 2865/2011 – 11493/2013 – 26966/2013) di cui di seguito riportiamo alcuni stralci esplicativi:
“I principi fondamentali che regolano, nella vigente legislazione, l’esercizio della professione medica, richiamano da un lato il diritto fondamentale dell’ammalato di essere curato ed anche rispettato come persona, dall’altro, i principi dell’autonomia e della responsabilità del medico, che di quel diritto si pone quale garante nelle sue scelte professionali”;
“… la direttrice del medico non può che essere quella di rapportare le proprie decisioni solo alle condizioni del malato, del quale è, comunque, responsabile”;
“… l’arte medica, mancando per sua stessa natura, di protocolli a base matematica e cioè di pre-dimostrata rigorosa successione di eventi, spesso prospetta diverse pratiche o soluzioni che l’esperienza ha dimostrato efficaci, da scegliere oculatamente in relazione a una cospicua quantità di varianti che, legate al caso solo il medico, nella contingenza della terapia, specifico, può apprezzare”;
“… è doveroso attenersi a un complesso di esperienze che va solitamente sotto il nome di dottrina, quale compendio della pratica nella materia, sulla base della quale si formano le leges artis, cui il medico deve attenersi dopo attenta e completa disamina di tutte le circostanze del caso specifico, scegliendo, tra le varie condotte terapeutiche, quella che l’esperienza indica come la più appropriata””;
“… questo concetto non può essere compresso a nessun livello nè disperso per nessuna ragione, pena la degradazione del medico a livello di semplice burocrate, con gravi rischi per la salute di tutti”.
“… a nessuno è consentito di anteporre la logica economica alla logica della tutela della salute, né di diramare direttive che, nel rispetto della prima, pongano in secondo piano le esigenze dell’ammalato. Mentre il medico, che risponde anche ad un preciso codice deontologico, che ha in maniera più diretta e personale il dovere di anteporre la salute del malato a qualsiasi altra diversa esigenza e che si pone, rispetto a questo, in una chiara posizione di garanzia, non è tenuto al rispetto di quelle direttive, laddove esse siano in contrasto con le esigenze di cura del paziente e non può andare esente da colpa ove se ne lasci condizionare, rinunciando al proprio compito e degradando la propria professionalità e la propria missione a livello ragionieristico”;
“… Nel praticare la professione dunque, il medico deve, con scienza e coscienza, perseguire un unico fine: la cura del malato… ….senza farsi condizionare da esigenza di diversa natura, da disposizioni, considerazioni, valutazioni, direttive che non siano pertinenti rispetto ai compiti affidatigli dalla legge ed alle conseguenti relative responsabilità”;
“… le linee guida non devono essere ispirate a esclusive logiche di economicità della gestione, sotto il profilo del contenimento delle spese, in contrasto con le esigenze di cura del paziente”. “… il medico ha il dovere di disattendere indicazioni stringenti dal punto di vista economico che si risolvano in un pregiudizio del paziente”.
“… una volta effettuata la scelta, il medico deve restare vigile osservatore dell’evolversi della situazione in modo da poter subito intervenire ove dovessero emergere concreti sintomi e far ritenere non appropriata, nello specifico, la scelta operata e necessario un aggiustamento di rotta o proprio una inversione.”
Se il problema è quello di una definizione, forzosa, per via legislativa dell’atto medico, non c’è bisogno di inventarsi furbescamente distinzioni che inseguono altri fini. L’Unione Europea dei Medici Specialisti nel 2013 ha redatto un’appropriata e completa definizione di atto medico che proponiamo come utile base di riferimento: “L’atto medico ricomprende tutte le attività professionali, ad esempio di carattere scientifico, di insegnamento, di formazione, educative, organizzative, cliniche e di tecnologia medica, svolte al fine di promuovere la salute, prevenire le malattie, effettuare diagnosi e prescrivere cure terapeutiche o riabilitative nei confronti di pazienti, individui, gruppi o comunità, nel quadro delle norme etiche e deontologiche. L’atto medico è una responsabilità del medico abilitato e deve essere eseguito dal medico o sotto la sua diretta supervisione e/o prescrizione”.
Se invece si tratta di individuare competenze specialistiche per le professioni sanitarie, i limiti entro cui muoversi sono già tracciati dalla normativa vigente. In positivo sono determinati dal contenuto del decreto ministeriale di riconoscimento (D.M. n° 739/1994); in negativo dalla necessità di far salve le competenze previste per la professione medica e per le altre professioni del ruolo sanitario (Legge n° 42/1999, art. 1). Anche nelle leggi di riferimento per le professioni sanitarie, esiste quindi un nucleo irriducibile di competenze riservate alla professione medica che debbono essere individuate nelle attività di diagnosi e di prescrizione terapeutica. Oltre alle quali, la Legge assegna ai medici e ai dirigenti sanitari ruoli organizzativi ben definiti e non surrogabili, previsti in modo chiaro nell’articolo 15 comma 6 del D.Lgs 502/92 e s.m.i., per quanto riguarda la direzione delle strutture complesse, e nell’articolo 17 bis dello stesso decreto per quanto riguarda la direzione di dipartimento, a garanzia della funzionalità dei servizi escludendo modelli organizzativi a canna d’organo.
Si prepara, in maniera irresponsabile, un ulteriore strappo nella tela già lacerata del carattere unitario del diritto alla salute dei cittadini, attraverso una balcanizzazione delle competenze professionali e della definizione degli atti medici, e dei relativi livelli di responsabilità, distinti in semplici e complessi a seconda della latitudine e dei rapporti di forza. Il rischio che gli apprendisti stregoni, ed i loro laudatori, sottovalutano è quello di smarrire il carattere unitario della persona malata non separabile in cellule da affidare ai medici e bisogni da delegare agli infermieri. La sanità italiana del terzo millennio avrà a simbolo, per dirla con Cavicchi, il malato segato in due, mezzo del medico, mezzo dell’infermiere , monadi autonome ed anarchiche.
Chiunque intenda concepire nuove e progressive sorti sulla rottura con i medici e sulla progressiva erosione dei loro ambiti e dei loro ruoli professionali , superando a colpi di arroganza e protervia un consistente corpo di leggi scritte e di “common law”, sappia che avrà le risposte politiche, sindacali e giuridiche adeguate al livello dello scontro che si vuole aprire.
Carlo Palermo e Antonio Ciofani (Anaao)
Manovra/ Nuove competenze, Apm all’attacco: «Non si può limitare il ruolo del medico». E le professioni non ci stanno
Medici all’attacco sull’allargamento delle competenze e delle responsabilità delle professioni sanitarie infermieristiche-ostetrica, tecniche della riabilitazione e della prevenzione. Il fuoco incrociato parte dall’Alleanza per la professione medica (che riunisce Aaroi Emac – Andi – Cimo – Cimop – Fesmed – Fimmg – Fimp – Sumai) e si concentra sul comma 566 della Legge di Stabilità, approvata a dicembre scorso e pubblicata in Gazzetta prima della fine dell’anno.
Il testo, secondo l’Apm «solleva questioni che non possono essere affrontate con poche righe, senza ulteriori approfondimenti sui ruoli di tutte le professioni sanitarie».
L’Associazione, che rappresenta tutto il mondo del lavoro medico, condanna quindi quella che considera una «fuga unilaterale in avanti e chiede che si arrivi rapidamente alla definizione delle competenze delle singole professioni sanitarie, riaffermando concretamente il ruolo centrale del medico quale garante della salute dei cittadini».
Per i medici la norma contenuta nella manovra accelera i tempi rispetto a quanto previsto dal Patto della salute. «Oggi, con il comma 566 si è voluto dare una copertura legislativa – dichiara Riccardo Cassi, portavoce di Apm – alle sperimentazioni regionali avviate in questi anni. Per rispondere a spinte corporative non si è voluto attendere la delega, prevista dall’articolo 22 del Patto della Salute, che deve ridefinire in modo organico la gestione delle professioni nel Ssn. La norma che viene fuori dal comma 566, non è chiara – continua Cassi – si fa riferimento alla competenza del medico in materia di atti complessi e specialistici di prevenzione, diagnosi, cura e terapia, trascurando il fatto che la prevenzione, la diagnosi, la cura e la terapia sono per loro natura attività non riconducibili ad un unico singolo atto».
Apm nel suo manifesto ha già ribadito che «è in capo al medico la responsabilità di tutte le decisioni relative alla salute del paziente, superando un’artificiosa separazione tra attività assistenziale e attività diagnostica terapeutica».
Sulla stessa linea anche Roberto Carlo Rossi, presidente dell’Ordine dei medici chirurghi e odontoiatri di Milano: «Dopo anni di dibattito sulla centralità della presa in cura della persona e non della malattia – spiega – come in un gioco dell’oca, si torna indietro al punto di partenza. Al medico il compito di diagnosticare la malattia e definire la terapia farmacologica e/o chirurgica, mentre all’infermiere il compito di organizzare tutte le altre attività che, con un certo arditismo, vengono definite “assistenziali”. Come se tutte queste attività, a partire da quelle di riabilitazione o di alimentazione, non avessero nulla a che vedere con l’attività clinica.
Che l’evoluzione delle conoscenze e in primis della tecnologia, sempre di più comporti, a partire dal medico, la capacità di lavorare in gruppo, in modo da valorizzare tutte le singole competenze è fuori di dubbio. Il problema però, non si risolve separando in due sistemi paralleli l’intervento medico e quello infermieristico ma, al contrario, definendo con chiarezza la responsabilità della regia del processo».
Competenze di medici e infermieri, l’«errore» della legge di Stabilità
di Roberto Carlo Rossi (Presidente Ordine dei medici chirurghi e odontoiatri di Milano) L’approvazione del comma 566 nella legge di Stabilità (L 190 del 23 dicembre 2014) ha riaperto, a mio avviso in modo sbagliato, il problema del rapporto medico-infermiere nel definire il processo di cura e assistenza nell’interesse del malato.
Secondo le dichiarazioni della senatrice Annalisa Silvestro (Pd), presidente nazionale Ipasvi, il comma 566 avrebbe “finalmente” sancito che «il processo diagnostico-terapeutico è di competenza del medico, mentre quello assistenziale è di competenza dell’infermiere. Si tratta anche – aggiunge – di un’importante occasione per una riorganizzazione del lavoro nelle strutture pubbliche dove il dispiegamento delle potenzialità delle diverse professioni, a cominciare proprio da quella infermieristica, può consentire di recuperare efficienza e appropriatezza nella risposta sociosanitaria».
Dopo anni di dibattito sulla centralità della presa in cura della persona e non della malattia, insomma, come in un gioco dell’oca, si torna indietro al punto di partenza. Al medico il compito di diagnosticare la malattia e definire la terapia farmacologica e/o chirurgica, mentre all’infermiere il compito di organizzare tutte le altre attività che, con un certo arditismo, vengono definite “assistenziali”. Come se tutte queste attività, a partire da quelle di riabilitazione o di alimentazione, non avessero nulla a che vedere con l’attività clinica.
Che l’evoluzione delle conoscenze e in primis della tecnologia, sempre di più comporti, a partire dal medico, la capacità di lavorare in gruppo, in modo da valorizzare tutte le singole competenze è fuori di dubbio. Il problema però, non si risolve separando in due sistemi paralleli l’intervento medico e quello infermieristico ma, al contrario, definendo con chiarezza la responsabilità della regia del processo.
Il rischio della messa in discussione della regia del medico è, in primo luogo, il venir meno della centralità della persona e il suo diritto ad essere curato come malato e non come insieme di malattie e/o problemi. Il paziente deve cioè essere seguito in modo coordinato ed armonico e mai in maniera potenzialmente conflittuale.
Essendo poi che, per legge, l’operazione deve essere fatta “a costo zero”, ovvero senza far «derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica», in un quadro che inevitabilmente vedrà aumenti e diminuzioni in termini di mansioni, vien spontanea la domanda: chi dovrà ‘pagare’ il ‘dispiegamento delle potenzialità delle professioni infermieristiche’? Questa, tra l’altro, è una domanda che, a mio parere, si dovrebbero porre innanzi tutto gli stessi infermieri.
In questo ragionamento non c’è nessuna volontà di difendere rendite di posizione e di potere. Che medici e infermieri abbiano due aree di competenza diverse, con diverse autonomie è oramai assodato, ma la regia e la direzione dei lavori della presa in carico del paziente deve essere del medico.
Autonomia e rispetto reciproco non devono mai voler dire confusione di ruoli o, peggio, perdita del controllo di ciò che è necessario fare per curare e prendersi cura dei malati.
Trovo, infine, strano che la Fnomceo non abbia sentito l’esigenza di mettere in chiaro la preminenza del ruolo del medico a tutela del paziente, ma è difficile per chi scrive ignorare il fatto che nell’emiciclo il senatore Bianco occupi lo scranno vicino alla senatrice Silvestro.
Gli auspici delle professioni
Dal canto loro infermieri, ostetriche, tecnici di radiologia media e Conaps (Coordinamento nazionale delle professioni sanitarie) che rappresenta le altre 19 professioni sanitarie del Ssn, auspicano tempi stretti per l’iter di riorganizzazione del lavoro per i processi di cura e di assistenza.
In una lettera inviata, tra gli altri, al ministro della Salute Beatrice Lorenzin e al presidente della Conferenza delle Regioni Sergio Chiamparino, le professioni esprimono «apprezzamento» per il comma 566 della legge di stabilità 2015 che «rende finalmente ineludibile e certo l’iter di ridefinizione dell’organizzazione del lavoro dei professionisti sanitari». Ma sollecitano anche «una rapida ripresa e conclusione del percorso che ha già prodotto due proposte di accordo inerenti le professioni infermieristiche e la professione di tecnico sanitario di radiologia medica». Infermieri, ostetriche, tecnici di radiologia medica e tutte le altre professioni riunite nel Conaps, infine, chiedono l’apertura dei tavoli di lavoro alla Salute anche per le altre professioni sanitarie regolamentate con specifici decreti del ministero.
da Quotidiano sanità e Il Sole 24 Ore sanità – 11 gennaio 2015