Paolo Russo. Una riforma dei ticket in dirittura d’arrivo che potrebbe non avere, come invece promesso, impatto zero sulle tasche degli italiani. E poi l’obbligo di centralizzare gli acquisti, che ancora molte Asl ed ospedali fanno per proprio conto, con il risultato di spendere più del dovuto.
Nonostante le smentite ufficiose, sulla sanità siamo alle prove tecniche di taglio. Ipotesi che fa subito salire sulla barricate i governatori, a nome dei quali il Presidente della Conferenza delle Regioni, Sergio Chiamparino, ricorda al governo «che se si rompe il patto d’onore in sanità siglato ad agosto viene meno il rapporto di fiducia e collaborazione». «Nessuno vuole tagliare la sanità, ma nessuno vuole gli sprechi», è la mezza smentita che arriva da Palazzo Chigi, affidata però all’Ansa anziché a note ufficiali. Perché la realtà è che senza toccare pensioni, sanità e stipendi pubblici tagliare 20 miliardi di spesa non sarà impresa facile. Lo sanno le regioni e lo sa il Ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, che si preparano ad incrociare le armi con l’Economia. «Ho chiesto un incontro con Palazzo Chigi per capire quali siano le reali intenzioni sulla sanità», rivela Chiamparino. «Non vogliamo accumulare tesoretti ma reinvestire in rinnovamento tecnologico e ristrutturazione degli ospedali. Tutte cose che porteranno risparmi in futuro», mette in chiaro.
Qualcosa però il Fondo sanitario sembra destinato a lasciarla sul campo. Non sarà quel 3% pari a tre miliardi, ma uno, uno e mezzo probabilmente sì. Il problema è che quasi tutte le misure previste dal Patto non danno risparmi «pronto cassa». Salvo due: la centralizzazione degli acquisti obbligatoria e le riforma dei ticket. Che in base al Patto dovrebbe essere a «invarianza di gettito» ma che qualche risorsa in più potrebbe invece garantirla, spalmando meglio il peso dei ticket, dai quali sono oggi esenti metà degli italiani, proprio quelli che consumano più sanità.
I tecnici hanno già predisposto una bozza di riforma da approvare entro il 30 novembre, in base all’agenda fissata dal Patto. Le esenzioni verrebbero agganciate al reddito Irpef «equivalente», ossia scontato per chi ha più familiari a carico. In base al reddito si fisserebbe un tetto massimo di spesa per ogni ricetta. Ad esempio 30 euro per chi ne guadagna 30mila l’anno, mentre sulle singole prestazioni si pagherebbe un ticket percentuale. Tanto per capire: se ho quel reddito lì e mi vengono prescritti due accertamenti da 50 euro ciascuno, soggetti a un ticket del 50%, anziché versare cinquanta euro mi fermerò a 30. Per evitare salassi a chi deve fare molti accertamenti durante l’anno è previsto anche un tetto annuale alla spesa. Ad esempio non più di 300 euro per chi ha il solito reddito di 30mila. L’effetto del tutto sarebbe quello di ridurre la platea degli esenti, che potrebbero ancor più assottigliarsi se, con alcuni accorgimenti, il sistema venisse applicato anche alle esenzioni per patologia delle quali oggi beneficiano anche i milionari.
Insomma, non sarebbe poi così difficile aumentare il gettito dei ticket, che oggi coprono a mala pena il 3% della spesa sanitaria. Così come non sarà difficile ottenere risparmi obbligando tutte le Asl a centralizzare gli acquisti, visto che lo fanno l’80% di quelle di emiliane, toscane e venete, ma appena tra il 20 e il 50% le altre. E sprechi ce ne sono ancora in quantità industriale, come dimostra una tabellina apocrifa, ma di fonte regionale, che va da differenze di costi del 120 e 100% rispettivamente per servizi di lavanderia e pulizia, per passare al 200% degli «stent coronarici nudi in leghe diverse dall’acciaio» o addirittura al 650% di garze e bende. Soldi facilmente recuperabili, ma che la Lorenzin e i governatori cercheranno di trattenere nel fondo sanitario per evitare di lasciare fuori della porta nuove cure e tecnologie che già bussano alla nostra sanità.
La Stampa – 12 settembre 2014