Dai dati sull’occupazione pubblicati ieri dall’Istat è spuntato un record: in Italia, non sono mai state così tante le donne che lavorano. Praticamente una su due ha un impiego: il 48,8 per cento. La percentuale non era mai stata così alta negli ultimi 40 anni, dal 1977, anno in cui sono cominciate le «serie storiche», cioè da quando l’Istituto di statistica ha cominciato a tenere la «contabilità» scientifica del fenomeno. Il dato si riferisce a giugno, quando in un mese gli occupati totali sono aumentati (+23 mila), dopo che erano calati in maggio (-53 mila). A che cosa si deve il rimbalzo, che porta il tasso di occupazione complessivo al 57,8% e ci colloca comunque a dieci punti percentuali di distanza dalla Germania? La «lieve crescita dell’occupazione — spiega l’Istat — è interamente dovuta alla componente femminile, mentre per gli uomini si registra un modesto calo», che interessa in particolare i 15-24enni e i 35-49enni. «A giugno 2017 — prosegue l’istituto, presieduto da Giorgio Alleva — la crescita del numero di occupati dipende solo dalla componente femminile (+0,4%), mentre quella maschile cala dello 0,1%. Il tasso di occupazione scende al 66,8% tra gli uomini (-0,1 punti percentuali) e sale al 48,8% tra le donne (+0,2 punti)».
«Il dato non mi sorprende — commenta Francesco Billari, docente di demografia e pro rettore in Bocconi — . Visti i valori bassi da cui parte l’Italia, e il fatto che le donne studiano ormai da tempo più a lungo degli uomini, l’occupazione femminile è inevitabilmente destinata a inanellare record su record nel tempo». Le donne trovano lavoro perché lo cercano: a giugno è sceso, infatti, il tasso delle inattive (-0,3%), dato che invece cresce tra gli uomini (+0,8%). Se la «quota rosa» avanza, a leggere bene i dati si scopre un’altra faccia della medaglia: le donne che lavorano sono sì di più, ma grazie soltanto ai contratti a termine. Tutti i nuovi posti di lavoro sono a tempo determinato, mentre i contratti «permanenti» non soltanto non salgono, ma scendono e sono mille in meno.
Anche sul fronte disoccupazione, i numeri migliorano. Il tasso in giugno è sceso all’11,1% dall’11,3% e il miglioramento riguarda soprattutto quella che rimane comunque la categoria più penalizzata: i giovani. Qui il numero di 15-24 enni in cerca di un impiego scende dell’1,1% e si attesta al 35,4 per cento. Dal calcolo del tasso di disoccupazione sono per definizione esclusi i giovani inattivi, cioè coloro che non sono occupati e non cercano lavoro. Se alcuni sono impegnati negli studi, altri sono così scoraggiati da non fare nulla e vanno a formare la categoria dei «Neet» ( Not in Employment, Education or Training , cioè che non lavorano, non studiano e non stanno facendo un corso di formazione), in cui l’Italia è prima in Europa, secondo un rapporto pubblicato dalla Commissione Ue a metà luglio.
Se questi sono i cambiamenti avvenuti rispetto a maggio, che cosa è successo rispetto al giugno 2016, un anno fa? I numeri migliorano anche su base annua: il tasso di occupazione cresce di 0,1 punti percentuali per gli uomini e di 0,7 punti per le donne, mentre il tasso di disoccupazione maschile cala di 0,4 punti e quello femminile di 1 punto.
Più donne al lavoro i limiti di un dato positivo
di Maurizio Ferrera. Durante la crisi, l’occupazione femminile è diminuita un po’ meno di quella maschile. L’ultima rilevazione Istat segnala ora che i 23 mila nuovi posti di lavoro creati in giugno sono andati quasi tutti alle donne. Un fenomeno già registrato qualche mese in passato, ma oggi particolarmente significativo perché batte un record. Dal 1977 non era mai successo che l’occupazione femminile si attestasse al 48,8%.
Nell’Unione Europea restiamo ancora il fanalino di coda: la strada da percorrere è ancora lunga. Quando c’è un divario, tuttavia, le tendenze sono più importanti dei valori assoluti. Ciò che conta è procedere, accorciare le distanze. Speriamo dunque che la ripresa economica si consolidi e che il mercato del lavoro resti aperto ed «amichevole» verso le donne.
In Italia esiste un bacino enorme di persone inattive che vorrebbero lavorare: sedici su cento, quasi il triplo della media Ue. La stragrande maggioranza sono donne, le quali non cercano attivamente occupazione perché scoraggiate e/o sovraccariche di oneri familiari. Molte di queste donne non sono mai riuscite ad entrare nel mercato occupazionale. Altre sono uscite con l’arrivo dei figli e, in assenza di sostegni alla conciliazione, sono rimaste in casa. In larga parte, si tratta di donne istruite, che hanno investito a lungo nello studio (anche se non sempre nei settori educativi più richiesti dal mercato). Le statistiche segnalano peraltro che il nostro Paese è caratterizzato da un’elevatissima percentuale di donne «sovra-qualificate» rispetto alle mansioni svolte.
Il problema è particolarmente grave nel Sud. Qui lavorano solo 33 donne su cento, rispetto alle 58 del Nord e alle 55 del Centro. Quando trovano un posto, le donne delle regioni meridionali hanno maggiori probabilità di ottenere contratti irregolari, con basse retribuzioni, non adeguati rispetto alle competenze. Per non parlare della forte inadeguatezza dei servizi sociali e dei nidi.
Seppure confortante, l’aumento dell’occupazione femminile reso noto dall’Istat è solo di natura congiunturale. Che fare per renderlo strutturale, o quanto meno stabile nel tempo? Sulla cosiddetta agenda donne si sono già formulate, anche sul Corriere , moltissime proposte: servizi, orari, congedi, coinvolgimento dei padri, incentivi contributivi e fiscali e così via. Il vero problema sono le mancate realizzazioni. Negli anni fortunati, l’agenda donne viene discussa dai politici, per poi restare appunto una semplice agenda (un insieme di cose ancora tutte da fare). Negli anni sfortunati, di donne non si parla proprio: il tema resta fuori dalla discussione, dai progetti, dalle priorità di governo. Dai dibattiti in corso, il 2017 rischia di ingrossare le fila degli anni sfortunati.
Il lavoro femminile — quello che c’è, ma soprattutto quello che manca — rischia così di restare la grande risorsa sprecata del nostro paese. Un’opportunità mancata per renderlo più ricco, equo, inclusivo.
Fausta Chiesa – Il Corriere della Sera – 1 agosto 2017