Per millenni gli uomini hanno usato gli animali come fonte energetica (tirare, trasportare) e solo dopo come risorsa alimentare
Attorno alla metà del Settecento Carl von Linné, universalmente noto come Linneo, riassunse la sua visione della natura rappresentandola come un misto tra un teatro e una piramide. Alla base le forme di vita più semplici che sostenevano (e sostentavano) gradino dopo gradino quelle via via più complesse fino ad arrivare sulla cima all’uomo. In funzione del quale tutto il macchinario era stato allestito, perché vedendolo e contemplandolo (ecco il teatro) potesse riconoscere la mano divina del suo creatore e rendergli grazie. Poco più di due secoli dopo, l’ecologismo più estremo auspica la catastrofe nucleare totale e la conseguente estinzione della specie umana, in modo da restituire il pianeta a una sua mitica, e inumana, condizione originaria, a una sua assoluta e primigenia verginità. Chi pensa che il posto dell’uomo nella natura sia una questione accademica, chi in generale non crede che la filosofia sia – com’è – la più concreta e materiale e pratica delle cose, si sbaglia di grosso.
La questione sollevata da Caterina Simonsen, con il candido coraggio di chi invece di esprimere un’opinione mette sul tavolo la propria vita, è una bottiglia che contiene molti diavoli. E molto complicati, perché mentre in alcuni casi i termini della questione sono chiari e netti, in altri sono più sfumati, ricchi di ombre e di angoli nascosti. È questo il caso del rapporto che intratteniamo con gli animali, dove siamo passati dal considerarli come cose e quindi da un’idea di legittimità dello sfruttamento in ogni sua forma, al riconoscerli come soggetti, con dignità e diritti oltre che con affetti (dati e ricevuti). Per arrivare infine a postularne una sorta di parità, in nome della comune appartenenza alla categoria, per la verità assai vasta e nebulosa, del vivente. Con effetti paradossali, dato che nell’affermazione «Noi siamo contrari all’uccisione di qualsiasi essere vivente», mentre si coglie con una certa facilità l’esuberanza emotiva, resta un po’ più difficile capire dove, quando, come e nei confronti di chi il precetto concretamente si applichi. Anche alle zanzare? Anche agli acari? Anche ai batteri? O il divieto vale da un certo livello in su? E da quale, di preciso? Viene in mente la terrorista convertita al giainismo di Pastorale americana di Philip Roth, con il suo velo davanti alla bocca per evitare il rischio di inghiottire, per sbaglio, un moscerino.
Quella degli animali, del regno animale, è un’idea astratta e totalitaria quanto il teatro di Linneo. In concreto esistono animali definiti, o perlomeno categorie, non totalità. Quelli prossimi a noi, con i quali molti di noi vivono, che in generale campano assai meglio dei loro antenati. Poi quelli che vediamo, di cui siamo a conoscenza, e anche qui non si può dire in generale che le cose siano peggiorate. Infine c’è la grande maggioranza, gli animali che non vediamo, ma che – per dirla crudamente – mangiamo. Qui è avvenuta la vera trasformazione. Non è vero che li abbiamo sempre mangiati, non al ritmo di oggi. Gli uomini per millenni hanno usato gli animali primariamente come fonte energetica – per tirare, per spostare, per portare – e solo secondariamente come risorsa alimentare. Si mangiava il pollame, non certo i bovini.
Oggi, esaurita la prima funzione è restata solo la seconda. Ed ha assunto dimensioni esorbitanti e aspetti sinistri, che solo con qualche sforzo si può fingere di non vedere. Eliminarla o, forse, ridurla è un problema per un verso di igiene e di salute nostra, per un altro, e principalmente, di cultura. Non c’è dubbio che la progressiva e tendenziale eliminazione della dieta carnivora sia un bene per tutti noi e si traduca in migliori e più allungate condizioni di vita. Ma a condurre la campagna contro l’alimentazione carnea e quindi contro il quotidiano massacro di animali è quell’entità chiamata scienza. Sia attraverso il suo lavoro di documentazione e di ricerca, sia attraverso l’impegno personale di alcuni suoi esponenti illustri, tra i quali in Italia primeggia Umberto Veronesi. Questo è appunto il (diabolico) paradosso, che proprio coloro i quali più possono in concreto operare per far diminuire o cessare il massacro di animali, cioè gli scienziati, sono messi sotto accusa dagli animalisti, che li eleggono a loro principali nemici. A causa, come è noto e come Caterina Simonsen ha senza tanti complimenti rivendicato, della sperimentazione clinica e farmacologica condotta su animali.
La comune ragionevolezza proprio perché ragionevole e perché comune non conta, non arriva a toccare strati profondi, convinzioni inconsapevoli, reazioni immediate e istintive. Da una parte c’è uno strato arcaico, premoderno, costituito ancor più che da diffidenza, da radicale incomprensione di che cosa sia il sapere scientifico. Invece di vedere la scienza come la frontiera mobile della conoscenza, di quel che davvero sappiamo, si trae pretesto dal suo stesso mutamento per degradarla a opinione tra tutte le altre o, peggio, ad arrogante strumento di potere. Tra i Paesi avanzati noi siamo quello in cui la scienza è tenuta in minor conto, non tanto nell’ossequio formale, quanto nella reale attribuzione di fiducia, nella reale confidenza. Non crediamo che la scienza dica la verità. Certo parziale, forse provvisoria, sempre superabile, ma verità.
In uno strato ancor più profondo, preculturale, c’è qualcosa di oscuro, di sguaiato, persino di torbido. Un istinto plebeo di dissacrazione preso per desiderio di autenticità. Un agitarsi rabbioso in cerca di qualcosa su cui appuntarsi, da mordere. Un accanimento cieco, esaltato dalla solitudine collettiva della rete. Si disegna un’immagine perturbante, per certi versi terribile, di violenza macerata in segreto, nel proprio intimo, fino a un urlo liberatorio. La notoria aggressività di Homo sapiens, la nostra specie, superiore in questo a tutte le altre, non è solo quella che si esercita sugli animali da laboratorio.
Corriere della Sera – 31 dicembre 2013