Ivone Cacciavillani, dal Corriere del Veneto. La vicenda del nuovo mega ospedale di Padova tiene banco nelle cronache venete ormai da anni; eterna la diatriba se costruirlo ad Ovest, in prossimità dell’ex Foro Boario, o ad Est, a San Lazzaro. C’è tutto di mezzo, dalla consistenza del suolo (rischio idraulico) alla comodità dell’accesso ed è la componente pubblica; ma di mezzo c’è anche quella privata, perché dell’originaria ipotesi Ovest un’importante società ha assunto il compito della progettazione dell’opera e redatto il progetto con ingenti spese, che non troverebbero certo giustificazione ove alla fine prevalesse la «tesi Est», come sta accadendo.
Il che pone il problema del rapporto tra il «pubblico» che programma le grandi opere, definite infrastrutturali, e il «privato», che collabora alla loro realizzazione, anche solo con la progettazione, col rischio che la «mano pubblica» (così si definisce l’Ente pubblico interessato) cambi idea e non esegua più l’opera. Altra volta il privato assume l’impegno di realizzare l’opera e di gestirla per con congruo numero di anni che consenta l’ammortamento delle spese della costruzione: è la formula che va sotto il nome di project financing, al quale le avversioni sono per lo più frutto di disinformazione. È un istituto di cui va rivendicata la paternità veneziana. Sostanzialmente frutto di project financing è il Ponte di Rialto, del quale le spese di costruzione furono ammortizzate con gli affitti dei negozi. Anche allora peraltro le cose non andarono sempre per il verso giusto: a metà del Settecento la pur oculata amministrazione idraulica della Serenissima si lasciò invischiare in un project un po’ ardito per la bonifica del Comprensorio dell’attuale Lozzo Atestino: il «promoter» redasse un articolato progetto, ne ottenne l’approvazione e passò ad attuarlo con la previsione di ricuperare le spese col «campatico», il contributo di miglioria. Fu un flop pauroso seguito da un asperrimo contenzioso ed alla fine dovette intervenire l’Erario per ripianare le insolvenze dell’esecutore dell’opera.
Questo è il punto: se la mano pubblica cambia idea e non esegue più l’opera progettata, chi paga le spese della progettazione eseguita dalla ditta che se n’era assunto il compito? Se è stata la stessa mano pubblica a decidere di realizzare l’opera, redigendone il progetto e magari avviandone la realizzazione e poi se ne pente, s’avrà una delle tante «incompiute», di cui il Veneto va tanto fiero: si pensi all’Idrovia Venezia-Padova, con i suoi splendidi ponti, come quello di Stra-Fossò, gettati su floridi campi di mais. Ma, e la società privata? La storia che verrà è già scritta nella «parte» (così si chiamavano le delibere anche legislative della mano pubblica) del Magistrato alle Acque (allora c’era), che ha ripianato i debiti dell’assuntore insolvente. Con l’Ospedale di Padova come andrà a finire? Un viaggetto fino alla Lozzo d’allora (due secoli e mezzo fa) e si saprà; l’unica variabile sarà il numero delle cause che precederanno la «parte» finale.
E per il futuro? Lozzo Attestino ancora insegna: la «parte» di partenza dev’essere chiara e perentoria, a prova di pentimenti anche elettoralistici della «mano pubblica». Sacra certo la volontà dell’elettorato, capziose le promesse elettorali; ma più sacro il contratto, che (ed il codice civile lo precisa) è legge tra le parti. Ma cos’è, di questi tempi, la legge?
Ivone Cacciavillani – Il Corriere del Veneto – 9 aprile 2016