
Pagati 50 euro, rivenduti a 1000: il business dei cuccioli dall’Est. Arrivano a migliaia in Italia ogni settimana. Da Ungheria, Slovacchia e Russia
Viaggiano per giorni all’interno di camion e furgoni oppure nelle stive degli aerei, stipati nei trasportini, persino nelle valige. Di continuo cuccioli di razza separati anzitempo dalle madri, accompagnati da documenti falsi, sofferenti e spesso malati entrano illegalmente e a migliaia in Italia. Il ritmo dei sequestri, l’ultimo effettuato dalla polizia poche settimane fa a Roma, suggerisce un traffico sommerso e costante.
Sono allevati, gatti ma soprattutto cani, a ritmo industriale in alcuni paesi dell’Est. In Ungheria e Slovacchia i cuccioli costano 50-80 euro. In Ucraina e Russia arrivano a 300. «Ma tutti fruttano fino a venti volte di più. L’altissima mortalità di esemplari malnutriti e sfiancati, troppo giovani per lasciare le madri, è già in conto» spiega Antonio Colonna, esperto di zoocriminalità che ha partecipato a oltre cento sequestri. Di recente, per non mettere a rischio carichi sostanziosi, si tende a organizzare spedizioni ridotte, frequenti e spregiudicate. Vedi i 12 cagnolini costretti sotto il sedile di un carro attrezzi scoperti a luglio vicino Riccione. «In questi casi i reati più frequenti sono quelli di contrabbando, maltrattamento di animali, falsità in certificazioni, truffa e frode in commercio».
Il giro d’affari si direbbe enorme. Nel marzo scorso il Tribunale di Napoli ha ordinato un sequestro di beni riconducibili agli amministratori di tre società tutte apparentemente collegate all’importatore napoletano Biagio Orefice, che avrebbero realizzato, fra il 2011 e il 2016, un’evasione fiscale pari a nove milioni di euro con l’importazione di 37mila cuccioli. Indagini e provvedimento scaturivano da un’operazione del 2012. «Fra febbraio e maggio, vicino Udine, sequestrammo un totale di 800 cagnolini con microchip stranieri che portarono a una condanna dello stesso Orefice. Si stimò che, fra ricavo sul singolo animale e fatture false, in due anni e mezzo avesse guadagnato fra i tre e i cinque milioni » racconta il capitano della Guardia di Finanza Andrea Gobbi, al tempo comandante del Gico presso il Nucleo di polizia tributaria di Trieste. «Prevaleva la piccola taglia, più richiesta: chihuahua, maltesi, bulldog francesi, ma c’erano pure golden retriever, sanbernardo in condizioni pessime, tanto che ne morì il 35 per cento».
Ad agevolare il mercato nero sembra contribuire un decreto ministeriale del 1994: «Non sono imprenditori agricoli gli allevatori che tengono in allevamento un numero inferiore a cinque fattrici e che annualmente producono un numero di cuccioli inferiore alle trenta unità». Le imprese amatoriali sono libere dai controlli fiscali e sanitari cui di regola soggiacciono i professionisti e ne approfittano in tanti, a giudicare dalla valanga di annunci su Internet. Senza garantire protezione agli animali l’allevamento fai-da-te può fruttare 30-40mila euro l’anno esentasse. I numeri lievitano se poi si finge che cuccioli o femmine gravide acquisiti di frodo siano nati in casa. «Presso un allevamento ufficiale trovammo 120 cuccioli di provenienza ignota dentro ceste e gabbie per polli» ricorda il capitano Cristiano Marella, comandante della Compagnia carabinieri di Faenza. «Mangiavano carne piena di vermi, c’erano farmaci scaduti e, in un freezer, il corpo di un maltese». Il titolare patteggiò una condanna di 9 mesi più multa e furono rinviati a giudizio i veterinari che avevano certificato l’attività.
Dei 12 cuccioli di chihuahua sequestrati a gennaio in un famoso negozio di Napoli due morirono subito. «Minuscoli, senza microchip, otto erano in vetrina. Il figlio del titolare vantava una denuncia per reati analoghi » dice il maggiore Francesco Cinnirella, comandante della Compagnia carabinieri Napoli Stella.
Secondo Dino Muto, presidente dell’Enci (Ente nazionale della cinofilia italiana), che rilascia i pedigree per la vendita di animali definiti di razza, «il problema non è tanto essere allevamenti amatoriali o professionali, quanto rispettare le regole. Quando gli organi preposti ci segnalano infrazioni o violazioni del benessere animale da parte di aziende o di singoli arriviamo a revocare il nostro riconoscimento ». C’è però chi obietta che è facile intestare le cinque fattrici previste dall’allevamento casalingo a prestanome e i cuccioli direttamente all’acquirente, mentre non di rado le Asl, in presenza di reati, preferiscono emettere prescrizioni su come mettersi in regola anziché denunciare all’autorità giudiziaria».
Repubblica – 19 settembre 2017