Alessandro Barbera. Che quel blocco prima o poi dovesse saltare, Palazzo Chigi e Tesoro lo sapevano già. Ma dopo la recente decisione della Corte costituzionale sulle pensioni, il timore di una nuova pronuncia con effetti retroattivi era altissima. Piaccia o no, se i giudici della Consulta avessero imposto la restituzione dei mancati aumenti di quasi sette anni ai dipendenti pubblici, si sarebbe aperta una falla da oltre 35 miliardi di euro, con conseguenze imprevedibili sulla tenuta dell’Italia sui mercati internazionali.
La Corte stavolta si è attenuta al principio di prudenza, e ad un vincolo – quello del nuovo articolo 81 della Costituzione – che oggi impone il pareggio di bilancio. Molti costituzionalisti sostengono che quando in gioco ci sono i diritti fondamentali non c’è bilancio che tenga. Ed è per questo che quel principio non fu nemmeno citato nella sentenza contro il blocco delle pensioni del governo Monti. Ma nel pieno di una nuova tempesta europea causata dalla vicenda greca, l’Italia sarebbe stata in grado di reggere l’onda d’urto di una sentenza di quelle proporzioni? In questi giorni negli uffici della Consulta la domanda se la sono fatta in tanti, anche i giudici che in maniera più intransigente avevano difeso la decisione sulle pensioni. Per una coincidenza della storia, i giudici italiani hanno scelto la via greca: pochi giorni fa, era l’11 giugno, la Corte dei Conti di Atene ha sentenziato la illegittimità dei tagli alle pensioni decise nel 2012 , ma allo stesso tempo ha detto che quella decisione non avrebbe avuto effetti retroattivi.
La formula scelta dalla Corte italiana per motivare la scelta – questa volta sarebbe stata unanime – è quella della «illegittimità sopravvenuta». Il blocco dei contratti – dicono i giudici – ha avuto ragion d’essere fino a ieri. Da domani il governo è tenuto a rispettare gli accordi collettivi e a sedersi al tavolo con i sindacati. Con la stessa logica con la quale ha rimborsato solo una frazione del dovuto ai pensionati, il governo non è però tenuto a stanziare alcunché: potrebbe anche decidere di concedere un rinnovo a costo zero, con risparmi da individuare nello stesso bilancio della pubblica amministrazione o solo sulla base di un principio di merito, finora negato. «Quello della illegittimità sopravvenuta è un concetto già previsto da vecchie sentenze», spiega l’ex presidente Giuseppe Tesauro. Pietro Ichino sostiene che rimuove un divieto, non istituisce l’obbligo a contrattare. Tesauro non è d’accordo: «Mi pare una sofisticazione, il senso della sentenza è chiaro. Allo stesso tempo non produce nessun automatismo di spesa».
A questo punto il governo è politicamente vincolato a trattare, e dunque a trovare i fondi per un rinnovo. Ma a distanza di oltre sette anni dalla scadenza dell’ultimo contratto – era il 2009 – era inevitabile che accadesse. Il governo ne era consapevole: basta dare una occhiata all’ultimo Documento di economia e finanza. Pur non stanziando un euro per il nuovo contratto, le tabelle ipotizzano un possibile aumento della spesa per 1,6 miliardi nel 2016, 4,1 nel 2017, 6,6 nel 2018. Il problema è che ad oggi, con i pesanti tagli di spesa (dieci miliardi) attesi per l’autunno, quei soldi il governo non li ha e probabilmente non li avrà. Ma questa è un’altra storia.
La Stampa – 25 giugno 2015