Il nostro consumo pro capite oggi è fra i 90 e i 100 grammi al giorno, contro il chilo e cento di un secolo e mezzo fa. Ma la produzione continua a superare (e di molto) la domanda: ogni 24 ore finiscono nella spazzatura 13 mila quintali di quello che viene sfornato La crisi di pagnotte e «michette»
In America cominciava la guerra di secessione, la Russia aboliva la servitù della gleba, da noi nasceva il Regno d’Italia… Correva l’anno 1861. E gli italiani — età media 27 anni — mangiavano ogni giorno un chilo e cento grammi di pane a testa. Avete letto bene, sì: più di un chilo di pane ciascuno.
154 anni dopo siamo quasi triplicati rispetto ai 22 milioni che eravamo e nel paniere quotidiano di un italiano oggi c’è meno di un decimo di quel chilo e cento di pane. Siamo scesi a un paio di fettine al giorno, cioè fra i 90 e i 100 grammi cadauno, quando va bene.
Demonizzato dalle diete, sfidato da cracker/grissini/schiacciatelle/toast/gallette e chi più ne ha ne metta, il pane — quello classico — non occupa più sulle nostre tavole il posto d’onore che gli era riservato fino agli anni Ottanta. L’Italia è diciannovesima nella classifica dei Paesi mangiatori di pane nel mondo e mai come in questi ultimi dieci anni le difficoltà economiche sono state così grandi per i panificatori. Un dato per tutti: dal 2007 a oggi sono andate perdute 3.108 imprese del comparto della panificazione. Erano 44.406 nel 2007, sono diventate 41.298 nel 2014. Colpa della crisi, certo. Ma anche di un costante cambiamento delle abitudini alimentari, soprattutto, come dicevamo, in termini di quantità.
Uno studio presentato pochi giorni fa dalla Coldiretti dice che, proprio per l’effetto crisi, il 46% degli italiani mangia il pane avanzato del giorno prima. Che, quando non è prodotto con i tempi naturali del lievito madre (cioè quasi sempre), tende a diventare raffermo già poche ore dopo essere stato sfornato. Eppure, croccante o no, le famiglie provano a contenere gli sprechi. Ma va detto che se di sprechi si parla non è contro le famiglie che va puntato il dito e che il binomio pane-sperpero è legato più che altro alla grande distribuzione.
«Su questa storia dello spreco di pane ci sto rimettendo la salute» se la prende Claudio Conti, panificatore da una vita e presidente di Assipan, Associazione italiana panificatori e affini della Confcommercio. «Lei lo sa che ogni giorno in questo Paese buttiamo via più o meno 13 mila quintali di pane? Un’assurdità. Con il pane che si spreca ogni giorno si riempie uno stadio. Una vergogna. E la cosa che più mi fa arrabbiare è che spesso sembra essere colpa dei panificatori. Invece noi non facciamo altro che sopravvivere e per sopravvivere siamo costretti a sottostare ad accordi capestro con la grande distribuzione».
Gli accordi di cui parla Conti sono fra i grandi supermercati e i loro fornitori. I primi comprano dai secondi quantità di pane che consentono l’assortimento completo sugli scaffali fino alla chiusura, ma il fatto è che pagano soltanto il prodotto venduto, quello che avanza non è un loro problema. Quindi che succede? Che il giorno dopo i panificatori consegnano le nuove ceste, ritirano il pane rimasto sugli scaffali la sera prima (si arriva a punte del 30%) e si occupano di smaltirlo. A spese loro. Ed ecco la difficoltà più grande: lo smaltimento.
«Il problema è che il pane è un prodotto di giornata» prova a riassumere Stefano Fugazza, che da presidente dell’Unione artigiani di Milano si occupa del settore alimentare, pane compreso. «Quello che rimane dopo la chiusura è tecnicamente un rifiuto, per legge. Una volta c’era chi lo voleva per gli animali oppure gli stessi panificatori potevano venderlo al dettaglio, grattugiato, a un prezzo di costo. Ma adesso non si può più. Mille norme impongono insacchettamento, etichettatura, analisi Asl… il gioco non vale la candela, né per chi vorrebbe offrirlo né per chi teoricamente potrebbe consumarlo». Associazioni caritatevoli, per esempio. Le quali però, fatti i conti, capiscono al volo che — fra il rispetto delle indicazioni di legge sugli alimenti e costi di furgoni, addetti e carburante — spenderebbero più che ad acquistarlo fresco.
Il risultato finisce col diventare scontato: meglio buttarlo via. «E il guaio è che da tutto questo i grandi distributori non imparano nulla» è convinto Maurizio Figuccia, panificatore storico e vicepresidente di Assipan. «Continuano a ordinare troppo pane sapendo che non lo venderanno tutto e noi dobbiamo pur lavorare… bisogna darglielo, anche se poi ne ritiriamo un bel po’ come rifiuto. Ma se a un panettiere avanzano 10 kg di pane, il giorno dopo starà ben attento a farne di meno. È una regola di buonsenso, no?».
«Troppo», a livello nazionale, significa che ogni giorno si sfornano in tutto il Paese 72 mila quintali di pane.
Viste dall’altra parte della barricata, cioè dalla grande distribuzione organizzata, le cose non stanno esattamente così. Per esempio sul contestatissimo punto del pane assortito, e in gran quantità, fino all’ultimo minuto, Federdistribuzione (per i grandi supermercati escluse le cooperative) fa sapere che «il 20% del pane è acquistato dopo le 18», che la varietà di scelta fino alla chiusura è «per dare stesse opportunità di spesa a tutti i clienti» e che «la grande distribuzione è responsabile del 35-40% delle vendite di pane fresco, non di tutto il mercato». Un’altra obiezione: «Dove esistono forni interni per produrre pane o dorare quello surgelato le rimanenze sono basse». Detto questo però, il problema con i panificatori dev’essere all’ordine del giorno se la stessa Federdistribuzione si augura di «guardare al tema del reso non in una logica conflittuale» e proprio su questo tema precisa: «Noi abbiamo a che fare prevalentemente con fornitori medio/grandi, imprenditori in grado di gestire la propria attività considerando il fenomeno del reso come parte delle politiche di prezzo».
Tutto quest’argomento potrebbe avere presto regole nuove. Perché Assipan ha presentato a luglio una segnalazione all’Antitrust che dovrebbe decidere il da farsi a settembre. Ipotesi: «Abuso di posizione dominante della grande distribuzione» per la «pratica vessatoria» che obbliga i panificatori al ritiro del pane invenduto.
Chi non ha mai sentito quel detto antico secondo cui il pane non si butta via mai? E invece nell’anno 2015 sappiamo che buttarlo via può essere perfino più economico che regalarlo. Che è un problema di costi e di regole pronte a scattare nell’esatto momento in cui diventa «rifiuto». E allora è in quel passaggio che va cercata la soluzione possibile: intervenire prima che scatti l’«ora x», e cioè quando il pane non è ancora scaduto, mettendo in contatto chi ha la possibilità di donare con chi vorrebbe ricevere e può organizzarsi per ritirare e redistribuire (vale per qualunque prodotto deperibile).
Su questo punta «Last minute market», spin-off accademico dell’Università di Bologna, fondato dal professor Andrea Segrè, nonché società che dal 2013 coordina il Programma nazionale di prevenzione dello spreco alimentare. L’idea vincente di Last minute market è mettere in contatto le due parti tenendo conto della distanza fra loro e del tempo delle scadenze. «Si attiva una relazione fra un donatore e un beneficiario potenziali in spazi e tempi ridotti», riassume Segrè, «ed è una relazione in cui vincono tutti. Nello statuto di questa società l’obiettivo è autodistruggersi, nel senso di arrivare allo spreco zero, non recuperare più niente. Quando ci arriveremo ci estingueremo ma avremo raggiunto il nostro scopo».
L’esperienza di Last minute market ha aperto la strada ad altre idee antispreco: piccole associazioni che a livello locale, soprattutto con app su misura, tessono la rete dei contatti fra panifici e associazioni no profit. E, naturalmente, in tutto questo ha un ruolo importante il Banco alimentare che recupera ogni giorno grandi quantità di cibo per i poveri (pane incluso).
Tutto ciò sarebbe inutile e lo spreco di pane sarebbe minimo se i tempi e le materie prime per produrlo fossero esclusivamente quelle richieste dalla natura. Non pani «globalizzati, lavorati e cotti in un baleno» per dirla con Stefano Fugazza, anche se quei pani globalizzati «sono tutt’altro che da denigrare» li difende Claudio Conti: «I nostri panettieri si alzano al mattino presto per fare del pane buono comunque, sia pure a lievitazione breve».
Quando si utilizza la pasta madre (rarissimi casi e non a livello industriale) l’elemento base da mettere in conto è la lentezza. L’impasto ha bisogno di 14-15 ore per lievitare, se poi lo si lavora per 2-3 ore prima di mettere in forno il prodotto, il risultato finale segna la differenza: tutto un altro pane, quantomeno dal punto di vista della durata. A differenza dei pani lievitati in fretta sarà ancora buono, morbido, profumato anche cinque o sei giorni più tardi e persino dopo essere stato spacchettato.
Peccato che la vita di tutti noi vada tanto veloce.
Il Corriere della Sera – 18 agosto 2015