Stefano Rizzato. Lo si può immaginare come un piatto gigante, riempito da un milione e 900 mila tonnellate di farfalle, rigatoni, maccheroni, trofie, fusilli. O come un lungo spaghetto intercontinentale che fa il giro del mondo. La pasta italiana non ha più confini. E dal 2004 a oggi ha aumentato notevolmente la sua presenza nei carrelli della spesa globali, con un più 23% nelle esportazioni.
In tempi di recessione e segni meno, un caso più unico che raro. Nel 2013, secondo i dati di Aidepi (l’associazione dei produttori) il 73% della pasta prodotta nell’Unione europea è uscita da una fabbrica italiana. Finendo spesso il suo viaggio sopra una tavola straniera.
I numeri parlano di due tendenze quasi opposte. La pasta esportata va verso la soglia storica di due milioni di tonnellate annue. Quella acquistata nel nostro Paese è in calo lieve ma costante: meno 10% negli ultimi dieci anni, da 28 a 25 chili pro-capite l’anno.
«Colpa della mentalità delle diete dimagranti e non equilibrate», dice Giorgio Calabrese, nutrizionista e dietologo. Che dietro al declino del consumo interno vede non la crisi – niente di più anticiclico della pasta – ma il segno di stili alimentari nemici della salute. «Negli ultimi anni si è diffusa l’idea, sbagliatissima, che la dieta migliore sia quella che toglie zuccheri e carboidrati e aggiunge proteine. A breve termine magari si perde peso, ma si rischia la salute. La pasta non si può limitare troppo. Basta evitare condimenti troppo carichi e grassi».
In ogni caso, le esportazioni hanno più che compensato il calo del mercato interno. La nostra pasta si vende a gran ritmo anche al di fuori dell’Unione Europea, negli Usa e in Paesi emergenti alla scoperta dei sapori italiani. Anche in Cina e in Giappone. «Per promuovere la pasta in contesti simili bisogna saperla un po’ adattare e soprattutto abbinarci l’italianità, la nostra cultura e gli stili di vita», spiega Luca Di Leo, portavoce di Barilla, colosso del settore.
Il made in Italy resta quindi l’ingrediente decisivo. Ma si sta facendo strada anche una dimensione più locale e radicata. Basti pensare al caso di Gragnano. Un paese di 36 mila abitanti in provincia di Napoli, che conta 15 pastifici tradizionali, duemila lavoratori tra addetti e indotto e un fatturato di 510 milioni solo nel 2013. Per l’80% esportazioni. «C’è una grande riscoperta della pasta artigianale, in Italia e all’estero», conferma Antonio Marchetti, presidente della Cooperativa dei pastai gragnanesi. «È un successo che viene da materie prime di qualità, processi di produzione lenti e curati, ma anche valori immateriali come storia e tradizione locale».
All’incrocio tra locale e globale, c’è spazio anche per storie di ben altro segno. Lo sanno i 110 lavoratori dell’Agnesi di Imperia, in sciopero a oltranza da giorni contro la decisione della Colussi – proprietaria del marchio – di chiudere lo stabilimento ligure. In vista della probabile, ennesima delocalizzazione, l’ultimo rigatone della storica azienda sarà sfornato a ottobre 2015. Per salvare i posti di lavoro s’era parlato di convertire lo stabilimento alla produzione di sughi, ma forse non sarà così. Se ne saprà di più venerdì, dopo l’incontro tra i dirigenti Colussi e il presidente della Regione Liguria Claudio Burlando.
La Stampa – 29 ottobre 2014