L’iter del Ddl delega sul Jobs act al Senato è bloccato dai dissensi interni al Pd. Nella riunione di questa mattina tra il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, e i capigruppo del Pd dei due rami del Parlamento, si cercherà una posizione comune sul nodo della delega all’articolo 4 del Ddl, che, in linea con quanto annunciato dal premier Matteo Renzi, dovrà affrontare il tema della riscrittura dello Statuto dei lavoratori, impattando anche sull’articolo 18, ovvero sulla disciplina dei licenziamenti.
A farsi promotore del dissenso interno rispetto alle posizioni del premier è il presidente della commissione lavoro della Camera, Cesare Damiano: «Non ci sono condizioni per lasciare deleghe in bianco al governo – afferma –. Renzi dice che non prende ordini dall’Europa? Allora dia l’esempio sul mercato del lavoro. Siamo disponibili ad una sospensione temporanea dell’articolo 18, purchè dopo la fase iniziale venga ripristinato». Per Renzi è difficile ignorare la posizione di Damiano, considerando che superato lo scoglio del Senato, il Ddl delega andrà in commissione lavoro alla Camera dove il Pd ha 22 deputati su 48, in prevalenza espressione della sinistra interna. In questo quadro appare in salita l’intesa con l’area centrista della maggioranza, ovvero con Sc, Ncd e Ppi che preme, invece, per concedere al governo una delega ampia per la riscrittura dell’intero Statuto, attraverso un Codice semplificato del lavoro che affronti i vari capitoli (demansionamento, controlli a distanza), compresa la disciplina dei licenziamenti. Si tratta di una priorità per il Ncd, come ha ricordato ieri il suo leader e ministro dell’Interno, Angelino Alfano: «Noi sosteniamo fino in fondo la strada di cambiare lo Statuto dei lavoratori, dentro cui c’é anche l’articolo 18 – ha detto alla direzione nazionale –. Superiamo tutto lo Statuto». Poletti oggi incontrerà anche gli esponenti dell’area centrista della maggioranza che hanno sottoscritto l’emendamento di Pietro Ichino (Sc) all’articolo 4 del Ddl delega che insieme al Codice semplificato prevede, in caso di licenziamento, il contratto a tempo indeterminato privo del reintegro al posto di lavoro, sostituendolo con un indennizzo crescente in base all’anzianità di servizio. «Tutti comprendiamo l’importanza che avrà per il governo potersi presentare a Bruxelles entro l’anno con un Codice semplificato del lavoro – afferma Ichino – nel quale l’intera legislazione di fonte nazionale, a dir poco bizantina, sarà stata riscritta in 70 articoli, brevi, leggibili da tutti e tradotti in inglese. Finora in Europa nessuno ha fatto tanto».
Bisognerà ascoltare il discorso del premier Renzi con il programma per i mille giorni per capire quali saranno i prossimi passi del governo. Che ieri, per voce del ministro Poletti, ha mostrato grande cautela: «Credo che il Parlamento debba fare fino in fondo il proprio lavoro – ha spiegato –. Finora i tempi sono stati rigorosi. La cosa più saggia che posso fare è stare zitto». Sugli emendamenti alle altre 4 deleghe contenute nel Ddl, invece, in commissione lavoro al Senato la maggioranza è riuscita a trovare intese su temi che spaziano dall’utilizzo degli ammortizzatori sociali (con l’esclusione della Cig in caso di cessazione di attività aziendale), alle politiche attive (con il contratto di ricollocazione che mette in competizione i servizi per l’impiego pubblici e privati pagando la prestazione al raggiungimento del risultato), alla semplificazione delle procedure contrattuali, alla conciliazione dei tempi di vita e maternità (con la possibilità, tra dipendenti della stessa azienda, di cedere una quota di ferie a colleghi con figli in gravi condizioni di salute).
Il Sole 24 Ore – 16 settembre 2014
Jobs act, spunta la via dell’emendamento per «aggirare» l’articolo 18
ROMA — Ore decisive per il Jobs act . Il disegno di legge delega sulle nuove regole per il mercato del lavoro è tuttora mancante di un accordo per l’eventuale superamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Un passaggio delicato destinato ad alimentare fibrillazioni nella maggioranza di governo. Nelle fila del Pd è prevista una riunione (parteciperanno senatori e deputati oltre al ministro del Lavoro, Giuliano Poletti) necessaria a fissare una linea comune. Tanto più alla luce dell’accelerazione che Maurizio Sacconi (Ncd), presidente della commissione Lavoro al Senato e relatore del disegno di legge, vorrebbe imprimere alla discussione su quello che resta un totem del mondo del lavoro: l’impossibilità di licenziare senza giusta causa.
Oggi Sacconi conta di confrontarsi con Poletti, e stabilire i margini di un emendamento che contenga nuove regole sui licenziamenti. L’ipotesi su cui Sacconi lavora è rafforzare le norme per rendere certo l’arrivo del contratto a tutele crescenti, una modalità che non prevede la tutela dell’articolo 18 e stabilisce, in caso di licenziamento, indennizzi proporzionali all’anzianità anche dopo i tre anni di prova. Un’idea che il Pd ha sempre rispedito al mittente, preferendo un modello in cui le tutele crescenti vengono introdotte solo durante i tre anni di prova, per poi mantenere invece il diritto al reintegro previsto dall’articolo 18.
La soluzione di mediazione potrebbe essere approvare un emendamento che introduca nella delega la categoria del «contratto a tutele crescenti», lasciando alla fase attuativa la discussione su dove inserirlo: prima o dopo i tre anni.
Il Jobs act è in calendario alla commissione Lavoro al Senato già oggi e chi, come il Nuovo centro destra di Angelino Alfano, spinge per introdurre un grimaldello che scardini le regole dell’articolo 18, ritiene non ci sia tempo da perdere. Per il governo la riforma e l’introduzione di una forte flessibilità in uscita e entrata potrebbero diventare un argomento utile per rivendicare in sede europea più elasticità sui conti pubblici.
Nessuno lo ha esplicitato, perché politicamente scivoloso, ma il tema è sul tappeto e potrebbe parlarne Renzi oggi in Parlamento illustrando il programma dei Millegiorni. Le parole pronunciate ieri da Poletti riflettono il clima generale, «nel momento in cui il Parlamento sta discutendo di questa materia e dovrà prendere delle decisioni la cosa più saggia che posso fare è stare zitto», ha spiegato.
La scelta di presentare un emendamento alla vigilia della discussione in aula ha intanto un duplice effetto. Da un lato si consolida l’impressione che l’esecutivo, al di là delle rassicurazioni, conti di intervenire sull’articolo 18. Cementando, d’altra parte, le varie anime del Pd che lo ritengono intoccabile. La posizione di Vannino Chiti, senatore del Pd assai critico con Matteo Renzi sulle riforme costituzionali, sul Jobs act è netta. «Le riforme, compresa quella del mercato del lavoro, sono indispensabili ma non possono essere ancorate a logiche di riduzione dei diritti dei lavoratori», ha ribadito Chiti, aggiungendo che «non possiamo (il Pd, ndr ) essere subalterni a logiche neoliberiste superate dalla storia a cui continuano a richiamarsi altre forze di maggioranza». Sul fronte sindacale il leader Fiom, Maurizio Landini, è netto: «Renzi commette una follia se lo cancella e se continua il lavoro sporco dei precedenti governi non solo non usciamo dalla crisi, ma si mette contro i lavoratori ».
Andrea Ducci – Corriere della Sera – 16 settembre 2014
Art.18, scontro rinviato: la delega sarà generica
Il governo vuole il varo rapido della legge, i dettagli nei decreti delegati Ci sarà una norma con criteri per rivedere le tutele dello Statuto dei lavoratori
Scontro rinviato sull’articolo 18. È l’orientamento del governo: prima l’approvazione della legge delega con l’indicazione di alcuni criteri generali per rivedere le tutele dello Statuto dei lavoratori; poi, con i decreti delegati, la riscrittura delle regole sui licenziamenti. Nel merito, cioè sul come, deciderà il governo. Niente negoziati del governo con la maggioranza, niente chiarimenti del governo con le varie anime del Pd. E conferma del cronoprogramma che prevede l’approvazione della delega da parte del Parlamento tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, e il successivo varo dei decreti da parte dell’esecutivo entro la fine dell’anno.
In questo modo il premier Matteo Renzi insieme al ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ritengono di disinnescare “la bomba” e nello stesso tempo di mantenere inalterate le possibilità di cambiare l’articolo 18, come ci chiedono di fatto tutte le istituzioni europee (la Bce lo fece addirittura nella famosa lettera dell’agosto 2011). In più — è il ragionamento — portare a casa tutta la delega sul mercato del lavoro (il cosiddetto Jobs Act che riforma gli ammortizzatori sociali, i centri per l’impiego ed estende i diritti di maternità) significa potere affrontare il tema dell’articolo 18, fortemente condizionato da fattori ideologici da tutte le parti, in un contesto assai diverso. Insomma questo governo non ha alcuna intenzione di infilarsi ora in quella stessa battaglia che nel passato ha lasciato macerie su entrambi i fronti e soprattutto ha condotto a soluzioni pasticciate, basti pensare all’articolo 8 della “legge Sacconi” e poi alla riforma Fornero. Lo farà semmai dopo, quando potrà dimostrare, norme alla mano, che l’articolo 18 è diventato marginale in un contesto legislativo orientato alla promozione attiva dell’occupazione, perché questo è il cuore del Jobs Act. Una strategia che certo rischia di trovarsi in difficoltà di fronte alle previsioni largamente condivise (sono di ieri quelle pessime dell’Ocse) che posticipano ancora la ripresa dell’economia. Questo è forse il punto di maggiore fragilità dell’impostazione del governo e ne hanno assoluta consapevolezza a Palazzo Chigi come a Via Veneto, sede del Lavoro.
Presa la decisione, tuttavia, l’esecutivo dovrà ora tradurla in norme nella legge delega su cui da oggi riprende la discussione nella Commissione Lavoro del Senato. Quasi sicuramente sarà necessario un emendamento (dovrebbe arrivare domani) nonostante ci sia all’interno del governo chi pensa che l’ultima exit strategy si possa già adottare con l’attuale formulazione dell’articolo 4 della delega, quello che prevede l’introduzione del contratto di inserimento a tutele crescenti. Perché le tutele possono essere crescenti e condurre progressivamente, dopo tre anni o più dall’assunzione, all’applicazione dell’articolo 18 (compreso il diritto di reintegro nei casi ancora previsti) oppure essere crescenti in termini di indennizzo monetario (aumentano in relazione all’anzianità di servizio del lavo- ratore interessato) escludendo l’istituto del reintegro nel posto di lavoro se non nel solo caso di licenziamento discriminatorio. Renzi e Poletti vogliono tenersi campo libero e decidere sulla base di una delega sufficientemente ampia che proprio per sua natura non dovrà entrare nel dettaglio. Eviteranno così di accontentare l’Ncd di Angelino Alfano che propone (l’ha fatto anche ieri) la totale riscrittura dello Statuto del 1970 e di attribuire alla minoranza del Pd, assai forte nella Commissione Lavoro della Camera presieduta da Cesare Damiano, un vero potere di veto. Tanto che pure ieri l’ex ministro del Lavoro ed ex sindacalista della Cgil è tornato a chiedere «un compromesso sui contenuti, sul percorso e sui tempi di conclusione». Tutte cose che Renzi non intende fare. E una volta approvata la delega, sarà complicato per i parlamentari del Pd, poter dire che non si fidano della soluzione che individuerà il presidente del Consiglio il quale è anche il segretario del partito. Un modo per disinnescare l’ordigno dell’articolo 18 ma anche per azzerare l’eventuale potere di interdizione della minoranza. Ed è significativo registrare la dichiarazione di ieri di Francesco Boccia, presidente della Commissione Bilancio di Montecitorio: «L’articolo 18 è un feticcio, in Italia di fatto non esiste più e va superato ».
Continueranno a fare da spettatori i sindacati. Ieri la Cgil ha attaccato Alfano («il problema non è agevolare i licenziamenti ma estendere le tutele») e il leader della Fiom Maurizio Landini ha definito «una follia» l’eventuale completa cancellazione dell’articolo 18. «Così — ha aggiunto — Renzi continua il lavoro sporco dei precedenti governi ».
Roberto Mania – Repubblica – 16 settembre 2014