Alessandro Barbera. Sentite bene le parole di Renzi alla direzione del suo partito, ieri: «Sulle pensioni condivido la linea di Padoan», ovvero che «i conti non si toccano. Ma se esiste la possibilità, e stiamo studiando il modo, per cui in cambio di un accordo si può consentire la flessibilità, è un gesto di buon senso». Bisogna lavorare ad una soluzione che «consenta un piccolo aumento dei costi nell’immediato da recuperare successivamente».
Prima considerazione: che cosa spinge un presidente del Consiglio, già alle prese con svariate grane (la riforma del Senato su tutte) ad aprire un altro pericolosissimo fronte con la sinistra del suo partito? La risposta è nella premessa. Lo spiega Cesare Damiano, ex ministro del Lavoro e oggi alla testa di chi insiste per un intervento sulle pensioni: «L’apertura agevola il confronto su tutti i temi in agenda».
Calcoli politici
Dunque il punto è chiaro: nella scelta del premier c’è un preciso calcolo politico. Ma una cosa sono i conti della politica, altra cosa quelli di finanza pubblica. Tutti i calcoli fatti dalla Ragioneria e dall’Inps dicono una cosa molto precisa: qualunque anticipo dell’assegno pensionistico che preveda una penalizzazione inferiore ai tre punti percentuali l’anno farebbe schizzare all’insù la spesa. Renzi sa bene che l’introduzione di un meccanismo molto penalizzante sarebbe peggio che fare nulla. Per questo gli esperti di pensioni di governo e maggioranza le stanno pensando tutte. C’è chi propone il prestito previdenziale – che permette di ottenere un assegno in anticipo da restituire negli anni – chi vuole introdurre l’«opzione uomo» per anticipare la pensione dei senza lavoro, chi chiede la conferma dell’«opzione donna», un meccanismo in vigore (ma in scadenza alla fine dell’anno) che permette a chi ha 35 anni di contributi di andare a riposo fra i 62 e i 63 anni. Tutti hanno in tasca la ricetta giusta ma fatta eccezione per il prestito, si tratta di soluzione piuttosto onerose.
Gli accordi di solidarietà
Altri costi avrebbe l’applicazione per legge di alcune soluzioni applicate a macchia di leopardo nelle imprese grazie ad accordi con i sindacati e con incentivi degli enti locali. Lo strumento più importante si chiama «solidarietà espansiva». Funziona così: il lavoratore vicino alla pensione accetta una riduzione dell’orario di lavoro, l’azienda si impegna ad assumere un altro dipendente e allo stesso tempo però continua a pagare i contributi del pensionando. Il sistema prevede ovviamente un’agevolazione contributiva per l’impresa che lo applica. L’Agenzia del lavoro di Trento finanzia già un sistema del genere per un periodo massimo di tre anni e con un contributo di settemila euro a lavoratore. Ma ci possono essere altre varianti. Prima dell’estate Telecom aveva proposto al governo di applicare la «solidarietà generazionale». Anche in quel caso l’azienda, a fronte del passaggio al part-time del pensionando, si impegnerebbe ad assumere a tempo indeterminato lavoratori più giovani. Ma in quel caso però lo Stato dovrebbe farsi carico, in tutto o in parte, della riduzione di stipendio non superiore al 30 per cento della retribuzione piena. Nessuna di queste soluzioni è a costo zero, ma hanno il pregio di prevedere interventi circoscritti che non stravolgerebbero i conti previdenziali e soprattutto non spingerebbero le aziende a licenziare i dipendenti, come certamente accadrebbe con l’«opzione uomo» che finirebbe per aumentare a dismisura le fila dei cosiddetti esodati.
La Stampa – 22 settembre 2015