Il punto di partenza della nuova Ape è la determinazione della pensione futura sulla base dei contributi maturati al momento dell’anticipo pensionistico, utilizzando il coefficiente di trasformazione relativo all’età di 66 anni e sette mesi (attualmente 5,506%), che è l’età “canonica” della pensione di vecchiaia.
In sostanza, secondo le ipotesi allo studio e le dichiarazioni del governo circolate, non ci sarà per il lavoratore una penalizzazione “legale” sull’importo della pensione in cambio dell’anticipo di uno, due o tre anni. Certo, il lavoratore dovrà mettere in conto la cristallizzazione della pensione al momento in cui richiede l’Ape perché smette di versare contributi. Questa circostanza, nel caso di (eventuali) retribuzioni (e contribuzioni) crescenti nell’ultimo scorcio lavorativo, potrebbe tuttavia significare la rinuncia, volontaria, a un incremento dell’assegno.
Il costo dell’operazione Ape per il lavoratore – si ipotizza anche l’estensione del meccanismo agli statali e agli autonomi – sarà di tipo finanziario. Per altro, l’impatto verrà limitato dall’intervento dello Stato che sarà graduato a seconda delle situazioni e del reddito.
Nel caso di condizioni disagiate infatti (per esempio, il disoccupato o chi percepisce redditi contenuti), quando lo Stato interviene direttamente nel finanziamento della rata da restituire al momento della vecchiaia o quando è l’impresa che opera una ristrutturazione aziendale (di nuovo partecipando in maniera diretta al finanziamento dello strumento), i redditi netti erogati a favore del lavoratore appaiono seguire una evoluzione ragionevole.
Nel caso di Giovanni, per esempio, con un contributo dello Stato pari al 65% della rata, nell’ipotesi di pensionamento anticipato di tre anni, l’Ape garantirebbe nel primo periodo un assegno mensile di 894 euro; successivamente, alla maturazione del pensionamento di vecchiaia, la pensione diventerebbe, al netto della rata da destinare alla restituzione del prestito, di 932 euro mensile. Al termine dei venti anni del piano di ammortamento, dopo aver restituito tutto il prestito, lo stesso lavoratore dovrebbe aver diritto a una pensione mensile di 1.402 euro.
Nonostante la mancata penalizzazione nel calcolo della quota contributiva della pensione, quando non sono presenti contributi esterni, restituire l’anticipo si farà comunque sentire.
Nel caso di Mario, ipotizzando anche per lui un anticipo di tre anni, l’Ape risulterebbe di 1.770 netti al mese. Al raggiungimento del pensionamento di vecchiaia, però, la pensione si ridurrebbe a 1.398 euro.
Mediamente, nel corso dei venti anni del piano di ammortamento, Mario riceverebbe – grazie all’indicizzazione – 1.646 euro al mese (meno di quanto percepito nei primi tre anni di pensionamento anticipato). Solo al termine dei venti anni, la pensione finale risulterebbe di 2.388 euro mensili.
L’anticipo della pensione, dunque, richiede una valutazione di convenienza, in cui rientrano vari fattori: retribuzione attuale, situazione lavorativa, considerazioni personali e familiari sul proprio tempo.
Le simulazioni sulla base dei punti resi noti finora dal Governo non tengono conto della Rita, la rendita integrativa temporanea anticipata.
La Rita potrebbe essere in concorrenza con il prestito bancario per consentire ai lavoratori “over 63”, che hanno aderito alla previdenza complementare, di incassare parte della pensione integrativa per ridurre l’impatto dell’Ape. Dirimente è aver maturato una prestazione adeguata nell’ambito del fondo pensione che possa essere trasformata in Rita.
Mediamente infatti, ipotizzando il versamento di un contributo complessivo del 10% della retribuzione annua percepita (7% circa dal Tfr e il restante dai contributi versati dall’azienda e dal dipendente), bastano all’incirca sette anni di iscrizione al fondo pensione per finanziarsi un anno di anticipo pensionistico, 12/13 per finanziarne due e cosi via.
Il Sole 24 Ore – 24 giugno 2016