di Marino Longoni. In Italia ci sono oggi 22 milioni di lavoratori che versano contributi previdenziali all’Inps e venti milioni e ottocentomila trattamenti previdenziali (17 milioni di pensioni e oltre 3 milioni di prestazioni assistenziali). Nella drammatica vicinanza di questi due numeri c’è l’esplosività di una materia in grado come nessun’altra di dissestare i conti pubblici. Non è un caso se dal 1992 al 2011 si sono succedute ben sei riforme previdenziali.
Adesso si sente spesso ripetere che i conti sono in ordine, il sistema è in equilibrio, non c’è bisogno di alcun’altra riforma previdenziale. Non credeteci.
Difficile che un sistema possa rimanere in equilibrio quando si avvicina sempre più al rapporto 1/1, cioè un pensionato per ogni lavoratore dipendente. Tanto più se pretende di rispettare il principio dei diritti quesiti, cioè in pratica l’intangibilità di trattamenti ai quali non è corrisposto un adeguato versamento di contributi. Difficile che le giovani generazioni possono sostenere ancora a lungo il peso di assegni previdenziali molto più generosi di quelli che loro riceveranno quando andranno a loro volta in pensione.
Le ultime riforme hanno operato gradualmente il passaggio da un sistema retributivo a uno contributivo, ma in modo molto graduale. E senza cancellare una serie molto numerosa di privilegi che ancora sono presenti e che costano quasi tre miliardi ogni anno all’Inps. Il tema è dettagliato nella tabella pubblicata sul numero di ItaliaOggi sette in edicola da oggi. Al primo posto dei “duri a morire” ci sono, naturalmente, i benefit che intascano i politici, che spesso riescono a sommare un’aspettativa non retribuita che consente però un versamento figurativo di contributi previdenziali e un vitalizio, in pratica una doppia pensione. Si tratta di oltre duemila soggetti, che costano alle casse dell’Inps circa dieci milioni di euro l’anno.
Altra categoria coccolata da mamma Inps è quella dei dipendenti di comuni, province e regioni. I benefit pensionistici dei dipendenti di enti locali, sanitari, ufficiali giudiziari, costano ogni anno 427 milioni. Poi ci sono i dipendenti dello Stato (ministeri, scuola, università, magistrati) che intascano un bonus annuale di 410 milioni. Infine i militari e le forze dell’ordine, vezzeggiati con privilegi previdenziali pari a 330 milioni l’anno. L’omaggio al gentil sesso costa invece all’Inps un miliardo l’anno: è questa infatti la somma che risparmierebbe se fossero allineati tra maschi e femmine i requisiti per andare in pensione.
Altre categorie alle quali l’Istituto di previdenza concede ancora qualche regalino sono artigiani e commercianti (costo 115 milioni l’anno) e i lavoratori dello sport e dello spettacolo (100 milioni l’anno). Ci sono poi una miriade di micro rendite di posizione: 20 milioni per i dipendenti del settore marittimo, altrettanto per quelli dell’Enav, 17 milioni per i dipendenti delle ferrovie dello stato, e così via elencando per una decina almeno di categorie.
Non è quindi del tutto vero che, dopo le ultime riforme, il sistema è in equilibrio e non ha bisogno di altre riforme. Restano molti colli da spianare e valli da colmare. Ma soprattutto, fino a quando non si metterà mano seriamente almeno ai più scandalosi diritti quesiti e non si invertirà la tendenza che vede aumentare il numero dei pensionati e diminuire quello dei lavoratori, non c’è nessun possibilità che il sistema possa trovare un equilibrio stabile. Inutile illudersi. La prossima riforma previdenziale potrebbe essere dietro l’angolo.
ItaliaOggi – 22 giugno 2015