Le aspettative di nuovi interventi sulle regole per andare in pensione sono molto alte. Non dimentichiamo che è stato lo stesso presidente del Consiglio, Matteo Renzi, a suscitarle, facendo l’esempio, un anno fa, della lavoratrice anziana che diventa nonna alla quale sarebbe opportuno consentire di andare in pensione qualche anno prima per godersi il nipotino. Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, si è sempre detto favorevole alla cosiddetta «flessibilità in uscita», che significa appunto correggere la riforma Fornero per permettere il pensionamento qualche anno prima, ma con un assegno un po’ più basso. Il presidente dell’Inps, Tito Boeri, ha addirittura presentato un pacchetto preciso di proposte che vanno in questa direzione, ma hanno il difetto di prevedere che siano in parte coperte tagliando le pensioni più alte in pagamento (ipotesi che è stata respinta dal governo).
Perfino al ministero dell’Economia c’è chi, come il sottosegretario Pier Paolo Baretta, ha sempre lavorato per la flessibilità in uscita, avendo presentato già nella scorsa legislatura una proposta di legge insieme col compagno di partito Cesare Damiano (Pd) che ora l’ha rilanciata da presidente della Commissione lavoro della Camera. I due, del resto, osservano che, ostinarsi a lasciare immutate le rigide regole della Fornero, ha già comportato un costo di 12 miliardi per risolvere il caso esodati, i lavoratori senza pensione e senza stipendio.
Oggi per andare in pensione di vecchiaia servono 66 anni e 7 mesi, che dal 2019 verranno adeguati ogni due anni alla speranza di vita, arrivando a 70 anni, si prevede, nel 2049. Ma i giovani nati dopo il 198o e con carriera discontinua rischiano di dover aspettare fino a 75 anni, dice il presidente dell’Inps, Tito Boeri. Per la pensione anticipata occorrono 42 anni e 10 mesi di contributi, che si stima saliranno a 46 anni e 3 mesi nel 2049. I sindacati parlano di requisiti insostenibili mentre le aziende, soprattutto le grandi, sono disposte a pagare di tasca propria il pensionamento anticipato pur di mandare a casa i lavoratori anziani.
A frenare le aspettative è stato finora, come ovvio, il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, e con lui la Ragioneria generale, allarmati per l’aumento della spesa pubblica e soprattutto per la perdita di credibilità presso la commissione Ue che deriverebbe da un intervento che suonasse come uno smobilizzo della riforma Fornero. Tuttavia nel Piano di riforme appena inviato a Bruxelles c’è scritto che il governo valuterà, «la fattibilità di una maggiore flessibilità nelle scelte individuali, salvaguardando la sostenibilità finanziaria». Come ha detto ieri il sottosegretario alla presidenza, Tommaso Nannicini, la flessibilità per tutti costerebbe troppo. Diverso è parlare di un mix di interventi per platee limitate di lavoratori. In ogni caso, bisognerà aspettare la legge di Bilancio per il 2017.
Le ipotesi allo studio
L’IDEA DI UN ANTICIPO DA RESTITUIRE A RATE
Quando ieri il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha dato alla Camera la sua disponibilità a discutere del coinvolgimento di banche e assicurazioni nella «flessibilità in uscita» lo ha fatto rispondendo a una domanda di Maino Marchi (Pd) che alludeva al ruolo che questi soggetti possono giocare nell’ambito dell’ipotesi del «prestito pensionistico». Funzionerebbe così: il lavoratore a 2-3 anni dai requisiti di vecchiaia potrebbe chiedere un mini anticipo sulla pensione, tipo 700 euro al mese, che poi restituirebbe in piccolissime rate trattenute dal momento in cui decorre la pensione piena. Per limitare al massimo i costi, l’Inps potrebbe stipulare convenzioni con il sistema bancario e assicurativo, che fornirebbero l’anticipo sotto forma di prestito. Lo Stato si accollerebbe solo il costo degli interessi. Ipotesi che suscita «molta curiosità, ma che al momento non esiste», ha però frenato Palazzo Chigi.
A CASA 12 MESI PRIMA ASSEGNO GIÙ DEL 2%
La proposta classica di «flessibilità in uscita» è quella Baretta-Boeri, contenuta in un disegno di legge. Prevede la possibilità di andare in pensione fino a 4 anni di anticipo rispetto ai requisiti previsti dalla riforma Fornero per la pensione di vecchiaia ma con una penalizzazione pari al 2% per ogni anno, quindi fino a un massimo dell’8%. Stime informali dell’Inps hanno calcolato in 3,6 miliardi la maggior spesa nel 2017 che diventerebbero 7,5 miliardi nel 2026. Una variante calcolata ipotizzando una penalizzazione maggiore (3% per ogni anno di anticipo) e che solo il 70% degli interessati acceda al prepensionamento costerebbe 1,5 miliardi l’anno prossimo che salirebbero a 3,7 nel giro di dieci anni. Ieri il sottosegretario alla presidenza, Tommaso Nannicini, ha detto che le proposte che prevedono flessibilità generalizzata costano troppo, fra i 5 e i 7 miliardi l’anno.
MENO TASSE SUI FONDI PENSIONE
Un’ipotesi che periodicamente ricorre è l’estensione agli uomini dell’«opzione donna»: la possibilità prorogata per quest’anno per le donne di andare in pensione con almeno 57 anni d’età e 35 di contributi ma con l’assegno interamente calcolato col contributivo. Ci si perde in genere almeno il 25-30%. Nonostante ciò la spesa per lo Stato salirebbe nei prossimi anni, per via dei pensionamenti in più, e quindi anche questa proposta ha poche chance. Palazzo Chigi sta invece studiando un mix di interventi limitati. Dal prestito pensionistico per i soli lavoratori delle aziende in crisi, a misure per favorire i prepensionamenti pagati dalle stesse imprese (già previsti dalla riforma Fornero del mercato del lavoro) e i meccanismi di staffetta generazionale (già inseriti nel Jobs act). Il governo vuole inoltre ridurre la tassazione sui fondi pensione aumentato da quest’anno al 20% e flessibilizzare l’uso del Tfr nei fondi. (Enrico Marro – Il Corriere della Sera)
USCITE FLESSIBILI, MIX DI MISURE. «INTEGRATIVE» PIÙ APPETIBILI
Un mix tra prestito previdenziale e opzione donna. Con un sistema di “garanzie a catena” per rendere più leggero l’impatto sui conti pubblici nel breve periodo, che prevede il coinvolgimento degli istituti di credito, dell’Inps. E, direttamente o indirettamente, anche dei fondi pensione, che in ogni caso, con una distinta operazione, beneficeranno di una riduzione dell’aliquota fiscale sui rendimenti (attualmente al 20%) di almeno 4-5 punti e un incremento della deducibilità dei versamenti. È questa una delle 2-3 opzioni che sarebbero rimaste sul tavolo del pool di esperti della cabina di regia economica di Palazzo Chigi, guidata dal sottosegretario Tommaso Nannicini, per rendere più flessibili le uscite verso la pensione. Che si ridurrebbe per ogni anno di anticipo soprattutto per effetto del calcolo con il contributivo per il periodo tra l’uscita e il raggiungimento della soglia di vecchiaia. La penalizzazione (3-4% l’anno) verrebbe attutita con un dispositivo imperniato sul concetto del “prestito”, garantito, almeno in parte, da intermediari finanziari cui verrebbero a loro volta assicurati particolari incentivi. Anche l’Inps avrebbe un ruolo di ulteriore garanzia nei confronti degli istituti di credito.
A far esplicito riferimento alla possibilità di un mix di misure è stato ieri lo stesso sottosegretario alla Presidenza, Tommaso Nannicini. Che ha annunciato che il ricorso al secondo pilastro (previdenza complementare) sarà rafforzato non solo con interventi sul versante dalla tassazione (il ritorno all’aliquota dell’11,5% da quella attuale del 30% costerebbe circa 800 milioni) ma anche della governance (compreso il ruolo della Covip), della concentrazione dei fondi e «anche del rapporto tra risparmio obbligatorio tra primo e secondo pilastro». Una vera e propria riforma che punterebbe a rendere quasi obbligatoria una parte della “copertura previdenziale” attraverso forme integrative e che in questa chiave potrebbe vedere anche nuove misure sulla destinazione del Tfr (anche obbligatoria).
Tornando alla flessibilità, Nannicini ha ribadito che l’attuale sistema previdenziale verrebbe comunque preservato. «Non parlerei di tornare indietro rispetto alla legge Fornero», ha detto il sottosegretario.
La deadline per l’eventuale decollo del piano resta quella della prossima legge di stabilità da varare in autunno, così come confermato nell’ultimo Def, che oltretutto vincola l’operazione a un’accertata compatibilità finanziaria, ovvero solo nel caso in cui lo stato dei conti pubblici lo consenta. Senza il ricorso a quello che Nannicini ha definito ieri «uno sforzo di creatività» e a «soluzioni di mercato» (il coinvolgimento di banche, fondi pensione e, eventualmente, assicurazioni), l’intervento per rendere più flessibile la legge Fornero costerebbe alle casse dello Stato dai 5 ai 7 miliardi a seconda dell’ampiezza del bacino di lavoratori coinvolti (anni di anticipo) e dell’entità delle penalizzazioni.
Un concetto, quello della compatibilità finanziaria, di fatto ribadito dal ministro Pier Carlo Padoan, che si è comunque dichiarato pronto a discutere su strumenti e incentivi in chiave flessibilità. Oltre allo scoglio delle risorse da trovare c’è quello del via libera almeno informale della Ue. Anche perché per Bruxelles i risparmi garantiti dalla riforma Fornero, così come i suoi effetti per assicurare sostenibilità al nostro sistema previdenziale, sono una sorta di punto fermo del dossier Italia. E anche per la necessità di individuare una soluzione che sia compatibile con le indicazioni della Ue, l’ipotesi di un piano da adottare in autunno con la “stabilità” è considerata, al momento, quella preferibile. Ma la possibilità che un intervento per rendere più flessibili le uscite verso la pensione possa essere quanto meno formalmente annunciato prima dell’inizio dell’estate non è ancora del tutto tramontata. L’ipotesi-anticipo è stata valutata nelle scorse settimane a Palazzo Chigi. In ogni caso, a pronunciare l’ultima parola sarà Matteo Renzi.
Una delle altre due opzioni tecniche sul tavolo degli esperti si rifarebbero maggiormente alla proposta del presidente dell’Inps, Tito Boeri: calcolo dell’assegno, a prescindere dall’età di uscita, quasi interamente vincolato agli anni di versamenti effettuati. L’anticipo avrebbe anche l’obiettivo di favorire la “staffetta generazionale”. Un’ulteriore opzione si rifarebbe al potenziamento della previdenza integrativa anche attraverso una spinta più specifica in questa direzione da parte degli accordi aziendali e, più in generale, di una destinazione più vincolante di contributi da parte del lavoratore e del datore di lavoro. Il tutto dovrebbe essere accompagnato da un contributo sempre di natura “generazionale” (quindi all’interno del sistema previdenziale) sugli assegni più elevati e versati con condizioni molto più vantaggiose rispetto a quelle del sistema attuale. (Marco Rogari – Il Sole 24 Ore)
20 aprile 2016