Andare in pensione prima di aver raggiunto i requisiti minimi standard ma a fronte di una decurtazione dell’assegno. Con la prossima legge di stabilità che sarà approvata entro fine anno dovrebbe essere individuata una o più vie di uscita anticipate rispetto alle regole introdotte a fine 2011. Governo e Parlamento stanno lavorando su alcune ipotesi che vedranno la luce se si troverà la necessaria copertura finanziaria, a cui comunque dovranno contribuire i diretti interessati.
Tra le ipotesi contenute in proposte di legge depositate in Parlamento e che costituiscono un punto di riferimento su cui il governo sta lavorando, c’è quella in base a cui si andrebbe in pensione con almeno 35 anni di contributi e un’età minima di 62 anni a cui corrisponderebbe un taglio dell’8% dell’assegno. La decurtazione, infatti, sarebbe del 2% per ogni anno di anticipo rispetto ai 66 ritenuti il minimo standard (in realtà dall’anno prossimo per gli uomini saranno necessari 66 anni e 7 mesi per il trattamento di vecchiaia). La penalizzazione del 2% annuo verrebbe ridotta a fronte di contributi superiori al minimo di 35 anni.
Un’altra via prevede la reintroduzione delle quote, ossia il via libero al pensionamento quando, sommando almeno 35 anni di contributi e l’età, si arriva a 100 (101 per gli autonomi), sempre a fronte di una decurtazione dell’assegno del 2-3% per ogni anno di anticipo.
Il punto, però, è che in entrambi i casi la penalizzazione a carico dei futuri pensionati non sarebbe sufficiente a coprire i costi. L’Inps infatti ha calcolato che queste due opzioni a regime avrebbero un extra costo sul bilancio previdenziale compreso tra 8,5 e 10,6 miliardi all’anno. Quindi o si riduce ulteriormente il trattamento di chi anticipa, oppure si devono reperire i fondi da altre parti. Del resto con l’opzione donna la decurtazione è ben più consistente.
Il Sole 24 Ore – 14 agosto 2015