Cesare Damiano, pd, ex sindacalista della Fiom, ex ministro, presidente della Commissione Lavoro della Camera, ha fatto dell’uscita flessibile dal lavoro uno dei suoi cavalli di battaglia. Insieme al sottosegretario all’Economia, Pierpaolo Baretta, ha presentato una proposta di legge che anticipa a 62 anni (contro gli attuali 66), con 35 anni di contributi, la possibilità di andare in pensione con penalizzazioni sull’assegno fino all’8%.
Il presidente Renzi dice che in ogni caso il pensionamento flessibile dovrà essere a costo zero. È realistico?
«C’è questa ossessione del costo zero che obbedisce a una giusta preoccupazione: quella di non dare un segnale all’Europa di voler cancellare una riforma che è considerata la madre del risanamento dei conti italiani. È vero. Peccato che questo risanamento sia andato tutto sulle spalle dei pensionati. Detto ciò, è ovvio che per i primi anni di uscita anticipata ci sarà un costo».
Dunque è irrealistico parlare di un’operazione a costo zero?
«Nei primi anni non esiste un’ipotesi di questo tipo. Ma quando si ragiona di pensioni bisogna allungare lo sguardo. E allora se si proietta l’anticipo della pensione lungo la durata dell’aspettativa di vita (mediamente oggi intorno agli 80 anni) si scopre che ai primi anni di costo corrispondono negli anni successivi dei risparmi. Alla fine la differenza tra l’attuale sistema e quello con la pensione anticipata sarebbe pressoché irrilevante».
Sarà, ma il governo dovrà spiegarlo a Bruxelles, perché nei primi anni si genera una spesa aggiuntiva che va coperta.
«Io penso che se il governo vuole fare un’operazione di questo tipo può spiegarlo a Bruxelles perché nel tempo ci sarà un’invarianza di costi».
Senta, quanto costa la sua proposta? L’Inps ha calcolato un costo intorno agli 8,5 miliardi di euro.
«L’Inps non può fare come la Ragioneria dello Stato che giustamente si occupa della cassa. Il ragionamento, ripeto, va proiettato nel tempo. L’Inps immagina che una volta introdotto il pensionamento flessibile tutti coloro che hanno i requisiti abbandonerebbero il lavoro. Non è così. Ci sono lavoratori che a 62 anni si possono sentire usurati non più in grado di svolgere efficacemente la propria attività. Penso agli operai della catena di montaggio, agli infermieri, agli insegnanti delle scuole materne. Non si può dire la stessa cosa per i professori universitari, per i parlamentari, per i primari d’ospedale».
Non mi ha ancora detto quanto costerà la sua proposta. Ha fatto delle simulazioni?
«Ho fatto dei miei conti che hanno la pretesa di essere solo indicativi. Immaginiamo che un lavoratore con 35 anni di contribuiti vada in pensione a 62 anziché a 66. Con un anticipo di quattro anni subirà una penalizzazione dell’importo dell’8%, cioè il 2% per ogni anno. L’eventuale pensione di 1000 euro al mese scenderà a 920 euro. Moltiplicata questa cifra per tredici mensilità e per i 18 anni che separano il lavoratore dagli 80 anni, il costo complessivo sarà di 215.280 euro. Nel caso invece che lo stesso lavoratore rimanga in azienda fino a 66 anni, la sua pensione crescerà da 1000 a 1080 euro per effetto di quattro anni in più di contributi. Moltiplicando per tredici e poi per quattordici (gli anni che mancano agli 80) si arriva a 196.560 euro. La differenza in valore assoluto è di 18.720 euro, in percentuale dell’8,7. Con qualche accorgimento tecnico si può arrivare a pareggiare i due costi con un’operazione di sistema che nel tempo può effettivamente raggiungere l’obiettivo del costo zero».
Repubblica – 8 settembre 2015