Il cantiere delle pensioni riapre. E questa volta guarda ai giovani, a chi è nato dopo il 1980 e rischia di dover lavorare fino a 70 anni incassando mini-assegni a causa dell’occupazione precaria di questi anni e alla discontinuità nel versamento dei contributi. Il prossimo 4 luglio governo e sindacati si siederanno di nuovo insieme al tavolo della previdenza. Un tavolo al quale si discuterà anche di una pensione minima di garanzia e di versamenti contributivi figurativi a carico dello Stato, per i giovani che hanno carriere lavorative discontinue. Si apre, insomma, quella che è stata ribattezzata come la «fase 2» della riforma delle pensioni, che arriva dopo l’introduzione dell’Ape, l’uscita anticipata attraverso un prestito ripagato dallo Stato (Ape sociale) o dallo stesso lavoratore a rate sulla futura pensione (Ape volontaria). Se nella fase 1 governo e sindacati avevano guardato soprattutto ai padri e alla loro richiesta di anticipare l’uscita dal lavoro prima dei 66 anni e 7 mesi previsti dalle attuali norme, la fase 2, come detto, guarderà più ai figli, che rischiano di dover lavorare molto a lungo per arrivare alla fine della carriera ad incassare assegni previdenziali molto bassi.
I REQUISITI
Chi ha iniziato a lavorare dopo dal 1996 in poi, potrà andare in pensione, alle regole attuali, a 66 anni e 7 mesi, e avendo versato almeno 20 anni di contributi, ma solo a patto che abbia maturato una pensione pari ad almeno 1,5 volte l’assegno sociale ossia, sempre ai valori odierni, 672 euro. Chi non ha questi requisiti dovrà attendere fino a 70 anni e 7 mesi. Tutte le età, però, sono automaticamente agganciate all’aumento della speranza di vita e, dunque, destinate ad aumentare. Così, il primo punto che i sindacati porteranno al tavolo del governo, è proprio il blocco dell’adeguamento automatico dell’età della pensione alle aspettative di vita. Il prossimo scatto dovrebbe esserci già il prossimo anno, quando si dovrebbe passare dagli attuali 66 anni e 7 mesi ai 67 anni tondi. Proprio ieri, dal congresso annuale della Cisl, tutti i sindacati insieme hanno chiesto al governo di bloccare l’indicizzazione. Annamaria Furlan ha detto che è «impensabile» farlo. Carmelo Barbagallo della Uil, ha bollato l’ipotesi come «ridicola», Susanna Camusso ha parlato di «uno schiaffo ai lavoratori».
IL PASSAGGIO
Ma il punto più complesso che sarà trattato, è quello della garanzia di un assegno che assicuri ai futuri pensionati di poter avere una vita dignitosa. Con il sistema contributivo, infatti, non ci sarà più l’integrazione al minimo delle pensioni, il meccanismo che garantisce a chi non raggiunge i 502 euro mensili di arrivare a questa soglia con un contributo pubblico erogato dall’Inps. Una delle proposte sul tavolo è proprio quella di una «pensione minima di garanzia», un meccanismo molto simile all’integrazione al minimo che di fatto verrebbe estesa anche ai giovani che si trovano nel sistema contributivo. Ma sul tavolo c’è anche un’altra ipotesi che sta prendendo piede: quella di far versare allo Stato dei contributi figurativi a vantaggio dei giovani nei periodi in cui sono senza lavoro. Questo purché in quegli stessi periodi abbiano attivamente cercato una nuova occupazione. Questo sistema avrebbe il vantaggio di coprire i buchi previdenziali e garantire, per un’altra via, ai futuri pensionati un minimo di pensione. L’altra questione che il tavolo affronterà, sarà quella della previdenza integrativa. Siccome le pensioni erogate con il sistema contributivo saranno strutturalmente piùà basse di quelle attuali, sarà necessario incentivare l’adesione a forma di previdenza complementare. Il governo potrebbe decidere di fare marcia indietro sull’inasprimento della tassazione dei rendimenti dei fondi pensione, portata dall’11% al 26%. Una mossa che potrebbe diventare obbligata anche alla luce della decisione della Commissione europea di introdurre una sorta di passaporto europeo per gli investimenti previdenziali che potrebbe avvantaggiare quei paesi che hanno una fiscalità più bassa.
GENERAZIONE 80, AL LAVORO FINO A 70 ANNI E AL RITIRO IL 30% DI SOLDI IN MENO DEI PADRI
Guai ai nati negli anni ’80. E, ovviamente, peggio ancora per le classi successive. Il graduale passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo (il meccanismo fu messo in moto nel ’96) ha scavato un solco profondo tra i destini previdenziali di coloro i quali navigano intorno ai 40 anni (e a scendere) e quelli dei loro padri o fratelli maggiori. Questi ultimi sono andati in pensione, o si apprestano a farlo, con pensioni significativamente superiori e in età ancora relativamente giovane. Le generazioni future avranno trattamenti inferiori e resteranno al chiodo molto per molto più tempo.
LO STUDIO
I numeri dell’Inps parlano chiaro. Un’indagine a campione realizzata su 5 mila lavoratori nati nel 1980 e con una prospettiva di pensionamento nel 2050 fa emergere che chi oggi ha 35-37 anni prenderà nell’intera vita pensionistica, in media, un importo complessivo del 25-30% inferiore rispetto a quella della generazione precedente (i nati intorno al 1945) pur lavorando fino a 70 anni e oltre. L’impatto sull’assegno è ovviamente amplificato a seconda degli scenari considerati, con un appiattimento degli assegni verso il basso in caso di buchi contributivi di 10 anni o di una crescita del Pil in termini reali dell’1% anziché dell’1,5% considerato nello scenario base della Ragioneria generale del ministero del Tesoro.
I CALCOLI
I calcoli fatti dall’Istituto guidato di Tito Boeri disegnano uno scenario da vero e proprio scontro generazionale. Circa tre su quattro dei pensionati nati nel 1945 è uscito dal lavoro prima dei 60 anni. Mentre per chi è nato nel 1980 le proiezioni dicono che sarà possibile andare in pensione prima dell’età di vecchiaia (almeno 70 anni nel 2050) in meno del 40% dei casi. Ma si potrebbe arrivare fino a 75 anni. Insomma, sarà più basso il trasferimento pensionistico complessivo dei lavoratori attuali, che godranno di un tasso di sostituzione medio intorno al 62% (vicino al 63% dell’attuale media Ocse) ma lontano dall’80% circa delle pensioni oggi vigenti in Italia). Tra l’altro l’importo medio passerà dagli attuali 1.703 euro lordi al mese a 1.593 euro. Insomma si prenderà molto meno e lo si incasserà molto più tardi. L’istituto ha calcolato anche un «importo medio comparabile» che tiene conto del fatto che i giovani di oggi prenderanno la pensione per meno tempo, rispetto ai giovani di ieri. Tenendo conto di questa differenza, l’importo medio della pensione di oggi risulta pari a 2.106 euro, cioè un quarto in più rispetto a chi lo prenderà in futuro. Come a dire che, senza correttivi, il divario tra generazioni è destinato ad allargarsi sempre di più. «Il vero problema spiega Michele Raitano, docente di Politiche economiche dell’Università La Sapienza non è il meccanismo del retributivo in quanto tale. Ma il fatto che le generazioni che si affacciano sul mercato del lavoro avranno carriere molto più precarie rispetto alle vecchie generazioni. Vite lavorative meno fortunate in termini di frequenti periodi di non lavoro puntualizza l’economista , bassi salari, anche a causa di contratti part-time involontari, e aliquote di contribuzione ridotte si rifletteranno in una pensione di importo proporzionalmente più basso rispetto a chi, al contrario, non dovesse incontrare difficoltà occupazionali, versasse sempre aliquote piene, come i dipendenti, e percepisse retribuzioni di livello adeguato». Tanto è vero, conclude Raitano che «alcune simulazioni mostrano che con carriere piene e lunghe nel contributivo il rapporto fra pensione e ultima retribuzione sarebbe simile a quello del precedente schema retributivo».
Il Messaggero – 30 giugno 2017