Il cantiere della previdenza è sempre aperto. Sono passati tre anni dal 6 dicembre 2011, quando col decreto salva Italia il governo Monti decise una stretta sulle pensioni senza precedenti. La riforma Fornero abolì infatti le pensioni di anzianità, aumentò l’età per quella di vecchiaia a 66 anni ed estese il calcolo contributivo pro rata a tutti i lavoratori. Il risparmio di spesa previsto per il primo decennio (2012-2021) supera gli 80 miliardi. Ma nemmeno la riforma Fornero sarà l’ultima. Con insistenza tra gli addetti ai lavori si parla di un provvedimento di legge del governo che potrebbe arrivare a gennaio per introdurre qualche elemento di flessibilità sull’età pensionabile. Con lo stesso provvedimento o con uno parallelo dovrebbe essere varata la riforma della governance dell’Inps per chiudere la lunga fase del commissariamento. L’ipotesi che ha più chance prevede un presidente, un consiglio snello (3 membri) mentre il consiglio di indirizzo e vigilanza designato da sindacati e associazioni imprenditoriali verrebbe ridimensionato.
L’incubo referendum
All’Inps pensano che sia necessaria qualche modifica alla riforma Fornero. Lo aveva detto il precedente commissario straordinario, Vittorio Conti, e lo ha ribadito l’attuale, Tiziano Treu. Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha ripreso in mano il vecchio progetto di una minipensione anticipata (6-700 euro al mese) erogata dietro richiesta dei lavoratori cui manchino 2-3 anni ai requisiti Fornero e che poi verrebbe restituita in piccolissime rate dal momento in cui scatta la pensione piena. Ma questa novità non sarebbe sufficiente se la Corte costituzionale dovesse ammettere il referendum promosso dalla Lega per abrogare la stessa riforma. La decisione della Consulta, dice il segretario della Lega Matteo Salvini, arriverà questo mese, per consentire l’eventuale voto in primavera. È chiaro che se il referendum fosse ammesso, il governo, per evitare il rischio dell’abrogazione della Fornero che aprirebbe una voragine nei conti pubblici, dovrebbe intervenire sulla stessa riforma in modo da ottenere che la Corte ritenga non più giustificato il voto. Uno scenario da incubo che al momento nessuno, nel governo, vuole prendere in considerazione. Ma anche se il referendum non fosse ammesso, alcune partite andranno ugualmente sistemate.
Esodati
Secondo l’esecutivo la vicenda esplosa dopo la riforma Fornero, quando l’Inps quantificò in 328.650 i lavoratori che rischiavano di restare senza lavoro e senza pensione per effetto dell’improvviso aumento dei requisiti, si è chiusa con i sei «decreti di salvaguardia» approvati finora, che consentono a 170mila lavoratori di andare in pensione con le regole vigenti prima della riforma. Un’operazione che costerà al bilancio pubblico circa 12 miliardi di euro fino al 2020. Secondo i comitati degli esodati ci sarebbero invece almeno altre 50 mila posizioni da sanare. Al di là di questo braccio di ferro, che riguarda comunque persone che hanno perso il lavoro prima della riforma Fornero, va affrontato il tema dei lavoratori anziani che stanno perdendo o perderanno il lavoro senza essere coperti dagli ammortizzatori sociali fino al raggiungimento della pensione. Di qui il tema della flessibilità in uscita: stabilire cioè regole che consentano, in determinati casi, di andare in pensione prima. Oltre alla minipensione anticipata sotto forma di prestito a se stessi, altre ipotesi prevedono la possibilità di lasciare il lavoro qualche anno prima ma con una pensione più bassa o attraverso penalizzazioni per ogni anno di anticipo o con il calcolo dell’assegno col metodo contributivo, cioè sulla base dei versamenti effettuati durante tutta la vita lavorativa.
Braccio di ferro
Qualunque fosse l’ipotesi presa in considerazione, dovrebbe però fare i conti con le resistenze della Ragioneria generale dello Stato, fermamente intenzionata a impedire nuovi varchi nella riforma Fornero, oltre quelli che si sono già aperti: gli esodati prima di tutto, ma anche la decisione presa di recente con la legge di Stabilità di eliminare fino a tutto il 2017 le penalizzazioni per chi lascia il lavoro con 42 anni e mezzo (41 e mezzo le donne) di contributi ma prima di aver raggiunto 62 anni d’età. Ma altri varchi sono dietro l’angolo. L’«opzione donna», per esempio. Si tratta della possibilità, prevista dalla legge 243 del 2004, per le lavoratrici con almeno 35 anni di contributi e 57 anni d’età di andare in pensione, se lo vogliono, ma con l’assegno interamente calcolato col contributivo, che di regola comporta un taglio del 15-20%, rispetto al calcolo retributivo. L’opzione scade il 31 dicembre 2015. L’Inps, contrariamente a quanto disposto in precedenza, ha deciso di continuare ad accettare le domande di chi matura i requisiti fino alla fine del 2015. La Ragioneria aveva invece spinto per una interpretazione che, tenendo conto della vecchia «finestra mobile», chiudesse l’operazione nel 2014. L’Inps attende ora le indicazioni del ministero del Lavoro al quale si è rivolto mentre la stessa legge 243 prevede che entro il 2015 il governo decida se prorogare l’«opzione donna». Una ipotesi che potrebbe essere presa in considerazione, magari alzando la soglia dei 57 anni. E qualcuno dice estendendola agli uomini. I contributi si svalutano? Altra questione in sospeso è quella del montante contributivo. Per la prima volta quest’anno, a causa della prolungata recessione, l’indice per la rivalutazione del totale delle somme versate all’istituto di previdenza da ciascun lavoratore è negativo (-0,1927%). Questo significa che, per esempio, su ogni 100 mila euro di contributi se ne perderebbero 192. Per fortuna l’Inps ha deciso di non applicare la svalutazione. Ma anche in questo caso attende l’avallo dei ministeri vigilanti: Lavoro ed Economia. Il problema non è di poco conto. Se non si trova una soluzione, anche nel 2015 l’indice potrebbe essere negativo. Per evitare ciò l’Inps ha proposto che esso sia calcolato sulla media degli ultimi 10 anni del Pil anziché 5, sul presupposto che una recessione così lunga non si verifica mai.
Informazione a casa
Intanto, l’anno prossimo dovrebbe essere quello buono per il lancio della cosiddetta «busta arancione». In queste settimane l’Inps sta sperimentando verso 10mila lavoratori che hanno già il pin di accesso al sito il sistema di simulazione della pensione. Treu è deciso a estendere progressivamente questa possibilità a tutti i lavoratori iscritti all’Inps, partendo da quelli più vicini al pensionamento, dove il margine d’errore è più basso.
Assegni congelati
Nel frattempo per il 2015 chi è già in pensione vedrà il proprio assegno restare pressoché fermo. L’indicizzazione in base all’inflazione sarà infatti solo dello 0,3% mentre il dato definitivo 2014 è stato fissato all’1,1% contro l’1,2% provvisorio. Dovrà quindi essere restituito lo 0,1. La pensione minima lorda salirà dai 500,88 euro del 2014 ai 502,38 euro del 2015: appena un euro e mezzo in più al mese. La rivalutazione si applica in pieno agli assegni non superiori a tre volte il minimo, cioè fino a 1.502,64 euro lordi. Sopra c’è un adeguamento parziale a scalare. E oltre 14 volte il minimo, cioè 7.012,32 euro lordi al mese, scatta il contributo di solidarietà introdotto dal governo Letta: del 6%, che diventa del 12% sopra 10.017,60 euro e del 18% oltre 15.026,40. Intanto, giusto per elencare un’altra questione aperta, la Corte costituzionale si pronuncerà a marzo sul blocco della perequazione per le pensioni superiori a tre volte il minimo deciso con il salva Italia per gli anni 2012 e 2013. E anche sul nuovo contributo di solidarietà la Consulta, che aveva già bocciato quello deciso dal governo Berlusconi nel 2011, potrebbe tornare a esprimersi. (Enrico Marro – Il Corriere della Sera)
Tre anni dopo la riforma Fornero i piani per rendere più flessibile l’uscita ai lavoratori vicini all’età del ritiro
Non è ancora calata la polvere delle polemiche sul Jobs Act, che si sta aprendo un altro fronte economico e politico: quello di rifare un accurato tagliando alla recente riforma delle pensioni. Dopo le modifiche attuate dalla riforma del governo Monti-Fornero del 2012, il cantiere della previdenza resta aperto. I tecnici del ministero del Lavoro, dell’Inps, del Tesoro stanno lavorando a un nuovo piano per attutire le rigidità di quella riforma, che secondo molti ha inferto una ferita nel corpo sociale e non determinerà i risparmi previsti. L’ipotesi è quella di rimediare all’errore tecnico, prima ancora che politico, contenuto nel cuore della riforma: la doppia indicizzazione, che lega il progressivo crescere della speranza di vita sia ai requisiti di età per la vecchiaia (fino a 66-67 anni e oltre) sia all’anzianità per la pensione anticipata (arrivata a oltre 42 anni di contribuzione per gli uomini).
Le due indicizzazioni hanno prodotto l’effetto di tenere in stand-by milioni di lavoratori, costringendoli a rimanere in azienda fino a sei-sette anni in più o a uscirne con una forte penalizzazione (fino al 5% per chi va in pensione a 59-60 anni pur avendo maturato i contributi). La doppia indicizzazione e la penalizzazione bloccano il sistema, senza che sia stata fatta una coerente riforma del lavoro sui nuovi ingressi, ciò che rischia di creare future generazioni di senza pensione. Il merito della riforma Fornero è stato l’introduzione del metodo di calcolo contributivo pieno, più equo rispetto al retributivo, con conseguenze pericolose per carriere intermittenti e discontinue (giovani e donne).
L’idea è ora quella di una parziale ma significativa marcia indietro: plafonare entro un certo arco di tempo l’anzianità contributiva a 41 anni, svincolandola dai limiti di età. Tra l’altro la misura avrebbe anche l’effetto di sanare la questione esodati, senza costringerli a restare senza lavoro e senza pensione per troppo tempo: secondo le ultime stime agli ufficiali 185mila salvaguardati dovranno essere aggiunti altri 130mila esodati, attualmente senza tutele, per un totale di 315mila.
Ovviamente, ed è il punto critico, il tagliando alla riforma chiama in causa la capacità di avere le relative coperture finanziarie. Si sa che la coperta è corta, ma l’esigenza di sbloccare i due canali di uscita, che reciprocamente creano una paralisi, connettendola agli effetti stimabili di una incisiva riforma del lavoro, rimane ineludibile.
Per questo dovrebbe entrare in campo anche il prestito pensionistico, un’idea del governo Letta: dare a chi esce in anticipo un assegno di 700 euro al mese, da restituire a rate al momento del raggiungimento dei requisiti di pensione, misura che potrebbe servire anche per esodati e precoci. L’altra novità che bolle nel pentolone della previdenza è quella della cosiddetta busta arancione. Consiste nel ricevere via posta o di consultare online l’estratto conto dei propri contributi (il tesoretto personale maturato nel tempo), insieme alla simulazione dell’ammontare della futura pensione: uno strumento indispensabile con l’avvento del sistema contributivo, per ripristinare e dare a tutti responsabilmente la possibilità di scegliere il momento di andare in pensione, secondo parametri soggettivi, anziché subire lunghe e indesiderate permanenze al lavoro o forti penalizzazioni.
Le ultime stime ci dicono infatti che il cambio di modello di calcolo arriva a decurtare l’assegno di pensione del 25-30% rispetto al reddito percepito. Restano sul tappeto anche molti altri nodi strutturali del sistema previdenziale. A partire dagli effetti della rivalutazione dei montanti contributivi delle pensioni in occasione dei cali quinquennali negativi del Pil: da questo punto di vista il rischio sembra sventato, portando a zero l’incremento negativo dello 0,1927% di decrescita del Pil e per il 2015 a una stima positiva dello 0,50%, effetto di uno 0,40 di Pil e di uno 0,10 di inflazione. L’altro tema è la previdenza integrativa.
Quest’anno la contraddizione tra sviluppo della previdenza integrativa e incremento della tassazione su Casse private, Fondi complementari e Tfr in busta paga dovrebbe essere in parte sanata: le Casse pagherebbero il 20%, i Fondi dall’11 dovrebbero passare al 15% e non al 20%, mentre resterebbe la tassazione ordinaria e sfavorevole del Tfr in busta paga. Dopo l’approvazione della legge di Stabilità, a gennaio queste misure verranno introdotte nell’ormai canonico Milleproroghe.
Per le donne verrà prorogata la possibilità di andare in pensione prima del tempo con un binario preferenziale, avendo almeno 57 anni di età e 35 anni di contributi, anche se con una penalizzazione stimata del 20% per il metodo di calcolo totalmente contributivo. (La Stampa)
L’ex sottosegretario al lavoro Brambilla. “La riforma va modificata se lo Stato vuole recuperare la fiducia dei suoi cittadini”
«Allora, professor Brambilla, si riapre il cantiere pensioni?» Alberto Brambilla, già sottosegretario al Lavoro e Presidente del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale, uno dei massimi esperti di questioni pensionistiche in Europa, è categorico: «È un atto dovuto, se si vuole recuperare un rapporto di fiducia con i cittadini, che è stato infranto dalla riforma Fornero».
Che cosa significa?
«La doppia indicizzazione alla speranza di vita dell’età e dei contributi maturati per la pensione anticipata ha bloccato entrambi i canali. Non c’è stata alcuna connessione con una efficace riforma del lavoro. Il risultato è che le aziende si devono tenere persone anziane e demotivate e i lavoratori si sentono beffati. Emblematica la vicenda degli esodati».
Ma qualche merito la riforma pensionistica del governo Monti-Fornero ce l’ha.
«Naturalmente sì. Va ricordato che nell’autunno del 2011 eravamo sull’orlo del baratro. La crisi ha poi peggiorato la situazione economica e sociale. L’avvento del sistema contributivo sicuramente è stata una scelta equa e comprensibile a tutti e ha tolto ogni alibi al sistema retributivo, che ha prodotto guasti. Altri guai erano stati già combinati prima da Maroni e Sacconi con l’invenzione delle finestre mobili, che sono un inganno. Il governo Letta-Giovannini ha trascurato il problema pensioni. L’attuale governo Renzi-Poletti mi sembra più intenzionato e determinato a riaprire il cantiere pensioni».
L’ipotesi che circola sui 41 anni di contributi senza limiti di età per andare in pensione le sembra corretta e praticabile?
«Praticabile se la si rende una priorità, corretta senza dubbio. Vanno liberate e riallocate delle risorse, con tagli di spesa e lotta all’evasione. Tenga conto che i risparmi della riforma Fornero oggi sono stati bruciati dagli ammortizzatori sociali, non ci sono più».
È necessario avere un occhio di riguardo per le donne?
«Sì, perché per loro è più difficile andare in pensione con gli attuali requisiti. Si potrebbe mantenere il canale preferenziale contributivo, senza penalizzazioni e dando un riconoscimento in più alle donne con figli, sul modello francese. Il presidente Hollande all’inizio della sua carica ha anche abbassato a 60 anni l’età di pensione dei lavoratori precoci».
L’Inps rilancia la busta arancione?
«Le 10mila mail che sono in partenza mi fanno sorridere, un ennesimo test quando è già possibile avere dall’Inps milioni di estratti conto di lavoratori, coinvolgendo anche le casse private. E’ una questione di volontà politica, e di un po’ di coraggio in più. Tecnicamente è facile. Io e altri abbiamo predisposto un sistema, ma la nostra più che arancione è una busta azzurra, con stampigliato in piccolo il tricolore».
Il Nucleo di valutazione della spesa pubblica che fine ha fatto?
«E’ una storiaccia, semplicemente non c’è più. E’ stato lasciato morire nel maggio 2012. Ne sono stato al vertice per diversi anni. C’erano esperti del calibro di Paolo Onofri, Gianni Geroldi, Carlo Dell’Aringa, Antonio Golini. Ci hanno fatto sparire i computer con cui lavoravamo in via Flavia. Avevano bisogno di uffici. Ci hanno cancellato tutti i dati». (Walter Passerini – La Stampa)
6 e 7 dicembre 2014