Luca Pozza «Questa azienda è un gioiello della ricerca nel campo dei fluorurati, di cui il territorio dovrebbe essere orgoglioso. Noi siamo una risorsa, non un problema». Per voce dell’amministratore delegato Antonio Nardone, è decisa la difesa della Miteni Spa di Trissino rispetto alle accuse contenute anche nella relazione dei carabinieri del Noe di Treviso, secondo cui l’industria sarebbe stata da anni al corrente dell’inquinamento da Pfas (sostanze perfluoroalchiliche) che interessa le province di Vicenza, Verona e Padova, coinvolgendo 127.000 abitanti nella “zona rossa”.
«Leggo – ha precisato Nardone – che ci sarebbero fonti inquinanti sepolte a tre o quattro metri di profondità e che viene raccomandato di fare ricerche fino a 10 metri. Noi in collaborazione con gli enti abbiamo fatto 70 carotaggi in tutta I’area dello stabilimento, in punti stabiliti insieme all’Arpav, sino a una profondità di 30 metri e arrivando alla falda. Da queste ricerche sui terreni non è emerso nessun valore fuori norma e nel giro di qualche giorno pubblicheremo nel nostro sito tutti i risultati di queste analisi».
«Stiamo bonificando i terreni e la falda – ha aggiunto – su indicazione di Procura, Noe e Arpav, che sono qui tutti i giorni. Se serve siamo pronti a fare altri prelievi. Il tutto sta avvenendo a nostre spese, con costi che intaccano il patrimonio. Abbiamo investito molto nell’ambientalizzazione di una fabbrica creata negli anni ’60 e nella bonifica del territorio: non è facile convincere la proprietà in Germania a tenere aperto questo stabilimento».
L’azienda vicentina potrebbe rivalersi sulle precedenti proprietà. «Degli studi fatti sui terreni prima dell’ingresso dell’attuale proprietà – ha aggiunto l’ad, in carica da poco più di un anno – ne io, ne la proprietà, ne i manager che lavorano in questa azienda sapevamo nulla. E nemmeno adesso ne sappiamo nulla, nei nostri archivi qui a Trissino non c’è niente, come hanno potuto appurare i carabinieri. Quando il gruppo Icig ha comprato da Mitsubishi nel 2009 questo stabilimento, ha avuto garanzie scritte del rispetto di tutte le norme ambientali. Nel 2013 abbiamo fatto i rilevamenti nello stabilimento per ottenere la rigorosa certificazione ambientale, riscontrando la presenza di alcuni inquinanti non tabellati, cioè non soggetti ad essere denunciati agli enti. Li abbiamo denunciati ugualmente, informando le autorità, esiste la lettera. Da lì sono partiti l’indagine del Cnr e gli approfondimenti dell’Istituto superiore di sanità. La denuncia della presenza dei Pfas l’abbiamo fatta noi senza esservi obbligati, partendo subito con le bonifiche prima ancora che ci venisse chiesto».
Nardone ha ammesso la possibilità che negli anni ’70 siano stati usati terreni contaminati, ora in corso di rimozione. «Un problema con la falda esiste – ha riconosciuto – soprattutto quando piove. La stiamo depurando con 24 pozzi che prelevano l’acqua e la reimmettono pulita. I rilievi fatti a valle indicano che il sistema è efficace».
«La ditta sapeva dal `90, ma tacque»
«La Miteni non ha informato gli enti che fin dal 1990 era perfettamente a conoscenza che la sorgente dell’inquinamento (Btf e Pfas rilevata dal 2008) non è mai stata rimossa e che la stessa ha continuato a contaminare il terreno e la falda sino ad oggi». È il passaggio centrale della relazione con cui i carabinieri del Nucleo operativo ecologico di Treviso sostanzialmente accusano l’azienda di Trissino di aver saputo e di aver taciuto. Un dossier corposo, 146 pagine, contenenti i risultati di tre mesi di attività investigative e ispettive, ora agli atti dell’inchiesta condotta a Vicenza dai sostituti procuratori Barbara De Munari e Hans Roderich Blattner. Nel suo rapporto, il Noe da conto del procedimento di bonifica avviato nel 2013 e dell’individuazione della possibile fonte di contaminazione in alcuni rifiuti industriali interrati lungo l’argine del torrente Poscola. «Dagli accertamenti eseguiti – annotano però i militari – è emerso che la Miteni, negli anni 1990, 1996, 2004, 2008 e 2009, ha incaricato società di consulenza leader nel settore ambientale di effettuare delle indagini finalizzate a valutare lo stato di inquinamento del sito e a fornire possibili soluzioni per il confinamento della contaminazione rilevata. La Miteni, che aveva l’obbligo giuridico di comunicare agli enti competenti (Regione, Provincia e Comune) le risultanze emerse, sino ad oggi non ha mai trasmesso le citate indagini». Perché? «Al momento, non è chiaro», rispondono i carabinieri, ipotizzando tuttavia una possibile spiegazione: «Sicuramente, se ciò fosse avvenuto, la ditta avrebbe dovuto sostenere una ingente spesa per la rimozione e lo smaltimento del terreno contaminato, oltre alla necessità di smantellare parte dell’impianto produttivo». In ogni caso, secondo il Noe le conseguenze sono state gravi: «La condotta emissiva del gestore, iniziata nel 1990 e proseguita sino ad oggi, ha comportato che l’inquinamento da Pfas (e forse anche da altre sostanze non indagate, come verosimilmente i Btf) si propagasse nella falda a chilometri di distanza, provocando il deterioramento dell’ambiente, dell’ecosistema, nonché probabili ricadute sulla salute della popolazione residente che per anni potrebbe aver assunto inconsapevolmente acqua contaminata». Tutto questo «non ha consentito gli enti/organi preposti di comprendere ed affrontare efficacemente la problematica».
Il Gazzettino – 19 giugno 2017