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    Home»Notizie ed Approfondimenti»Più tasse per tutti, la beffa del federalismo fiscale. Boom delle imposte locali con il taglio dei trasferimenti
    Notizie ed Approfondimenti

    Più tasse per tutti, la beffa del federalismo fiscale. Boom delle imposte locali con il taglio dei trasferimenti

    pecore-elettricheInserito da pecore-elettriche6 Luglio 2014Nessun commento4 Minuti di lettura
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    E il decentramento fa crescere gli squilibri: un’azienda di Roma lavora per lo Stato due mesi in più di una di Cuneo. Andrea Rossi. Un piccolo imprenditore milanese quest’anno smetterà di lavorare per pagare le tasse il 27 agosto. Un torinese tre giorni prima, il 24. A quel punto avrà poco più di quattro mesi per occuparsi di se stesso e del proprio profitto. Se però la sua attività fosse insediata altrove, potrebbe chiudere i suoi conti con il Fisco anche un mese prima.

    A Cuneo, il suo «tax free day», il giorno in cui si libera dalla morsa dello Stato, sarebbe addirittura il 25 luglio, a Gorizia e Sondrio il 28. In fondo, è meglio che non si lamenti. Potrebbe andare peggio: ad esempio, i suoi colleghi romani o bolognesi annasperanno fino al 29 settembre, come i fiorentini e i reggini; i cremonesi fino al 17, i biellesi all’11.

    Il più grande prestigiatore di questi ultimi anni è stato il Fisco: tra i 2007 e il 2014 lo Stato ha eliminato ai Comuni trasferimenti per 7,5 miliardi. E i sindaci si sono rivalsi su cittadini e imprese, aumentando le imposte locali. Ovviamente per 7,5 miliardi. I presidenti di Regione, poi, ci hanno messo del loro, facendo lievitare le addizionali Irpef di 2,4 miliardi. Risultato: non solo il macigno fiscale sulle imprese si è appesantito (la pressione sui profitti delle aziende è passata dal 59,1% del 2011 al 63,1 del 2014), ma soprattutto si è diversificato da regione a regione e, ancor di più, da città a città, producendo grossolani squilibri anche a distanza di pochi chilometri, realtà dove mantenere un’attività è diventato un atto d’eroismo più che una scommessa.

    L’osservatorio permanente degli artigiani di Cna sulla tassazione delle piccole e medie imprese mostra un’Italia formato ottovolante, dove un artigiano romano perde per strada (lasciandoli a Stato, regione e comune) il 74,4% dei suoi profitti, un milanese il 65,1%, un cuneese il 56,2%. Fino al 2011 il quadro era molto più uniforme. Poi è arrivata l’Imu. Dopo ancora la Tares, che oggi si chiama Tari. Infine la Tasi. E una quota sempre più consistente della leva fiscale è passata nelle mani dei sindaci. Doveva essere il principio base del federalismo: il risultato, per ora, è un feroce e diffuso aumento della pressione fiscale. Ma non dappertutto. O, almeno, non con le stesse dimensioni.

    Ad esempio, a Roma, il Comune fa pagare alle aziende 8 mila euro di Imu (o Tasi) e 6 mila di tassa rifiuti, Bologna tartassa i fabbricati (10.700 euro) ma è meno esosa sull’immondizia (2.700). Sommando le imposte, parliamo comunque di 13-14 mila euro, mentre Cuneo si accontenta di 2.600 euro in tutto, Arezzo di nemmeno 4 mila. Reggere la concorrenza, con disparità così macroscopiche, diventa una chimera.

    Tre anni fa non c’era poi tutta questa differenza: il carico fiscale su un’azienda romana era il 65,7%; per una partita iva cuneese, all’opposto della classifica, era il 55,3%. La situazione del cuneese non è cambiata granché – anche se di certo non è migliorata -, in compenso i romani sono rimasti strangolati: per loro la pressione del Fisco è cresciuta del 10%. E il gap con i territori che meno s’accaniscono sui contribuenti è raddoppiato. In un certo senso chi fa impresa là dove i tributi locali sono fortemente aumentati è penalizzato due volte: dall’eccessivo peso fiscale che grava su tutte le aziende italiane, e dalla particolare condizione del suo comune. Gli basterebbe, ad esempio, trasferirsi da Firenze ad Arezzo per intascare 700 euro in più al mese. O, se volete, per pagare 700 euro in meno di tasse. Oppure potrebbe migrare da Genova a Imperia e risparmiare 5 mila euro l’anno, lasciare Biella per Cuneo e poter contare su 6 mila euro in più l’anno.

    L’esito del federalismo all’italiana su chi fa impresa, alla fine, è questo: l’imprenditore romano quest’anno lascerà sul campo oltre 37 mila euro (mille in più dei suoi colleghi fiorentini), contro i 29 mila di un concorrente di Udine, i 32.500 di un milanese, per non parlare dei 28 mila del solito “fortunato” cuneese. Ciascuno, quando tira le somme a fine anno deve guardarsi in casa, in tutti i sensi: non conta solo la bontà del lavoro, le intuizioni, la capacità d’innovare e scoprire nuovi mercati, ma anche – molto più banalmente – le decisioni del sindaco di turno. O, direbbero i sindaci, le scelte dei governi che, tagliando i trasferimenti, li obbligano a inasprire le tasse. Il rapporto causa-effetto è comunque impietoso: là dove le imposte comunali sono cresciute molto, dal 2011 a oggi gli imprenditori sono stati fortemente penalizzati rispetto ai loro concorrenti che lavorano altrove, dove si è comunque calcato la mano ma senza strangolarli.

    La Stampa – 6 luglio 2014 

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