La cronaca è questa: 4.098 falsi braccianti agricoli scoperti e denunciati, 15 arresti domiciliari, 21 persone obbligate a presentarsi alla polizia giudiziaria, un intero ufficio dell’Inps accusato di aver fatto da sponda ai truffatori, 11 milioni di euro (ma forse sono molti di più) di danno accertato all’Istituto di previdenza, beni di vario genere (35 immobili, 65 macchine, 7 moto, 826 quote societarie) sequestrati per un totale 66 milioni a 23 cooperative e ditte individuali e 37 persone fisiche.
Spicca su tutto, però, il coinvolgimento del «padrone delle tessere» della zona di Corigliano Calabro (comune sciolto per mafia nel giugno 2011) Antonio Carmine Caravetta, consigliere provinciale di Cosenza dell’Udc nonché responsabile fino a qualche tempo fa del patronato Epas. Vale a dire, secondo gli investigatori, il «vero motore di alimentazione della gestione illecita, con evidenti commistioni tra la struttura sindacale-politica e alcuni funzionari e dipendenti della sede Inps di Rossano».
Non è uno qualunque, Caravetta. È in qualche modo l’archetipo di un certo tipo di signorotto della politica clientelare. Finì sui giornali, compreso il nostro, tre anni fa. Quando la signora Maria Giovanna Cassiano, che dirigeva la sede Inps di Rossano, sulla costa ionica cosentina, fu messa sotto scorta dopo essere stata minacciata di morte per avere fatto semplicemente il suo dovere: aveva passato alla magistratura i documenti raccolti su una mega truffa all’Istituto di previdenza, quella che avrebbe portato agli arresti e ai sequestri di ieri battezzati non a caso, come vedremo, col nome «Operazione senza terra».
Era venuto fuori di tutto, dalle indagini di quella coraggiosa funzionaria concentrate su alcune cooperative: erano falsi i poderi dove i falsi braccianti agricoli figuravano aver lavorato, false le coltivazioni delle quali fingevano di essersi occupati, false le carte catastali, false le planimetrie e i timbri e, come raccontammo, falsi tutti, ma proprio tutti i documenti dei vari uffici. Di più: quando c’erano davvero pomodori, meloni o mandarini da raccogliere i gestori della truffa mandavano nei campi e nei frutteti non i lavoratori che risultavano all’Inps (troppa fatica…), ma poveri immigrati pagati in nero.
Ricordate il meccanismo? Per incassare l’assegno di disoccupazione o di maternità basta che il bracciante denunci all’Inps 51 giornate lavorative l’anno per due anni: 102 giornate in tutto, pagando ovviamente i relativi contributi. La cosa è particolarmente redditizia quando, come in Calabria dichiarata zona «depressa», i contributi sono abbattuti al punto che le aziende agricole (vere o false che siano) versano all’Inps appena il 14% del salario nominale. Il che dà diritto al lavoratore, vero o falso che sia, di incassare per il resto dell’anno un’indennità di disoccupazione pari al 40% del salario. Per capirci: un imbroglione con uno stipendio fittizio, pagando un obolo di contributi, ha diritto a una indennità di disoccupazione di circa 4.000 euro l’anno. Più le altre coperture.
Per i braccianti agricoli veri, che si spaccano la schiena sui campi, è una busta paga miserabile, di pura sussistenza. Che non consente neanche di arrivare alla fine del mese. Ma per le organizzazioni che gestiscono il business dei falsi braccianti in gran parte donne (spesso mogli, sorelle, mamme, cugine di impiegati, funzionari, farmacisti, architetti o addirittura notai per non dire delle parenti di uomini di spicco della ‘ndrangheta) si tratta di un affarone.
Basti dire che secondo il presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua l’ammontare delle maxi-truffe scoperte fino ad oggi sarebbe intorno al mezzo miliardo.
Di più ancora: l’inchiesta «Omnia» da cui è nato un processo con decine e decine di persone coinvolte e 37 condannati in primo grado per un totale di 410 anni di carcere ha dimostrato che spesso le maxi-liquidazioni che l’Inps girava ad alcune cooperative di falsi braccianti non venivano affatto smistate a povera gente ma piuttosto venivano investite per l’acquisto di partite di droga.
Eppure, quando grazie alle denunce («circa centomila certificati di malattia» in un solo anno) di Maria Giovanna Cassiano esplose il caso di cui parliamo oggi e l’Inps decise di non pagare più i soci delle cooperative imbroglione fino alla chiusura delle indagini, la zona fu investita da proteste clamorose. Blocchi stradali, tentativi di fermare la festa patronale di Maria Santissima Archiropita, manifestazioni di piazza, assalti. Antonio Caravetta, il consigliere provinciale colpito ieri da un provvedimento giudiziario, tuonò furente contro «l’arroganza e l’insensibilità nei confronti dei tanti lavoratori agricoli della Piana di Sibari…».
Quanto fosse improprio e peloso cavalcare le difficoltà economiche dell’area, la disoccupazione giovanile, le condizioni di povertà estrema di parte della popolazione, tutti problemi che ci sono davvero e sono drammatici, lo dicono pochi dati. In Molise (non nel ricco Veneto o nella ricca Emilia: in Molise) ci sono 44 ettari di superficie agricola utilizzata per ogni lavoratore iscritto all’Inps, in Calabria 3,8; in Molise si impiegano 897 chili di sementi per ogni bracciante, in Calabria 33: ventisette volte di meno. Tanto che i calabresi iscritti come lavoratori agricoli all’Istituto di previdenza sono arrivati a essere 135.553 (il quadruplo della media italiana) mentre all’Istat ne risultavano circa centomila di meno. Come mai?
La tesi degli ispettori dell’Inps, molto spesso calabresi per bene e coraggiosi che in questi anni hanno rischiato la pelle per smascherare le cooperative di falsi braccianti inventate dalla ‘ndrangheta, è che in buona parte dei casi si tratti di un affare gestito dalla criminalità organizzata. Tesi via via confermata da una scia di processi giudiziari. Un affare da demolire proprio per recuperare le risorse necessarie ad assistere in modo più decoroso tutti quei braccianti agricoli veri che in questi anni di vacche magre vivono in condizioni sempre più difficili.
Gian Antonio Stella – Corriere della Sera – 21 ottobre 2012