di Roberto Giovannini. Non è proprio uno scontro frontale, ma quello tra la ministra della Pubblica Amministrazione Marianna Madia e il titolare del Lavoro Giuliano Poletti può essere annoverato come il primo dissapore all’interno del governo Renzi. Proprio su La Stampa Madia aveva proposto di limitare il cumulo tra pensioni e lavoro per dare più chances ai giovani. Ieri Poletti ha replicato che «è giusto che i pensionati possano lavorare».
Attualmente un tetto per il cumulo tra redditi da pensione e redditi da lavoro riguarda soltanto i lavoratori pubblici, ed è fissato a 311mila euro. Oltre questa soglia di reddito si può continuare a lavorare e guadagnare, ma la pensione percepita verrà ridotta in maniera corrispondente. Si tratta di una norma decisa dal governo Letta – mirata ai grandi dirigenti di Stato – «attuata» con una circolare da Madia nei giorni scorsi. Un tetto analogo non esiste per i lavoratori privati. Come ha spiegato Madia, questo è un problema: «in un’epoca in cui oltre il 40% dei giovani non trova lavoro, un milione e mezzo di persone tra pubblico e privato cumula lavoro e pensione. Capisco chi ha pensioni basse, ma ritengo non sia etico quando il cumulo porta a redditi molto alti».
Poletti non dice esplicitamente «no», ma si capisce che non sia d’accordo. «Se non ci può essere più cumulo fra chi lavora e la pensione – afferma a «Radio24» – allora bisogna che ragioniamo su cosa vuol dire cumulo; bisogna decidere per esempio qual è la modalità di uscita. Credo si debba riflettere insieme. E non dico “son d’accordo”, o “non son d’accordo”. Dico che non ne abbiamo discusso».
Anche perché, spiega il ministro del Lavoro, «non credo sia giusto che i pensionati non possano più lavorare. Credo che bisogna trovare delle modalità nuove più graduali e flessibili che consentano ad ogni persona di avere una cosa da fare. Questo lo considero il punto di svolta concettuale di questo governo. Nessuno deve stare a casa, lo dico anche per i giovani e per gli immigrati». Successivamente Poletti ha parlato anche di un altro tema rovente, quello della precarietà. Il decreto legge sui contratti a termine e l’apprendistato non è ancora stato varato, ma «è questione di ore».
E a chi, come la Cgil, contesta la liberalizzazione dei contratti a termine replica che «chi dice che con questa norma si produca un disastro mi chiedo dove stava a ottobre, novembre, dicembre 2013 quando il 68% degli avviamenti era con contratti a termine». Insomma, con la sua riforma «un datore di lavoro che ha la possibilità di tenere al massimo 36 mesi un lavoratore con contratto a termine ragionevolmente potrà assumere quel lavoratore» dopo i tre anni. Tanto più che in generale la flessibilità duratura (anche per i co.co.pro) porta a un posto stabile, afferma.
Infine, Poletti critica che siano i giudici a decidere i conflitti tra lavoratore e impresa: «che rapporto si instaura – si chiede – quando è frutto di una pena? Uno basato sostanzialmente su una sofferenza di fatto strutturale». Evidentemente, una sofferenza dell’azienda, visto che queste cause di norma le avviano i lavoratori. «Musica per le nostre orecchie», esulta l’ex ministro del Lavoro Maurizio Sacconi.
La Stampa – 20 marzo 2014