Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del 23 aprile scorso del Dpcm è stata faticosamente raggiunta l’ultima tappa per poter avviare operativamente il percorso di stabilizzazione del personale precario. Vale forse la pena di riassumere brevemente la problematica. Nel corso dell’estate del 2013 la questione del personale precario – soprattutto di scuola, enti locali e sanità – divenne insostenibile, anche se perdurava da anni in pratica nelle stesse dimensioni quantitative; per quanto riguarda il Servizio sanitario nazionale si parla di circa 36mila interessati. In ogni caso in quel particolare momento si verificarono le condizioni per l’adozione di un decreto legge (n. 101 del 31 agosto) che fissasse il perimetro del percorso della stabilizzazione, consolidando i requisiti e consentendo la ultrattività dei contratti del personale direttamente interessato.
Da parte sua la legge di conversione (n. 125 del 30 ottobre) portò a fine 2016 il termine del percorso che avrebbe dovuto effettuarsi mediante concorsi totalmente riservati ai soggetti in possesso dei requisiti.
Successivamente la legge di stabilità per il 2015 ha ulteriormente spostato il termine finale al 2018, poiché nel frattempo si era manifestata la prioritaria necessità di mobilizzare i dipendenti delle Province in esubero. I commi 6 e seguenti dell’articolo 4 disciplinavano le procedure di stabilizzazione per la generalità dei dipendenti pubblici, mentre il comma 10 conteneva specifiche disposizioni per il Ssn tra le quali di particolare rilievo era l’adozione di un Dpcm che stabilisse requisiti e modalità. Questo decreto era previsto entro il 30 novembre 2015 ma – come è noto – è entrato in vigore il 7 maggio 2015 con 17 mesi di ritardo. I motivi sono di natura politica e non certamente tecnica, visto che la bozza del decreto venne diramata fin dai primi giorni di dicembre 2013.
Cosa successe allora? Semplicemente che da più parti compresa, colpevolmente, quella governativa, si ritenne che nel decreto (che è un atto di normazione secondaria vincolato alla norma madre) potessero essere recuperate situazioni pesantemente critiche che nella legge 125 non erano riuscite a trovare soluzione. Si tratta in buona sostanza di tutto il personale a co.co.co. e a partita Iva che costituiva – e ancor oggi costituisce – il vero problema del precariato.
La legge ha privilegiato esclusivamente chi vantava un rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato (che è una delle quattro fattispecie del lavoro flessibile) ma non ha dato alcuna copertura normativa ad altre forme di lavoro atipico di cui si abusa largamente nelle aziende sanitarie. Tutto ciò ha comportato un rallentamento dell’iter, aggravato anche dalle puntuali osservazioni del Mef che ha di fatto riscritto buona parte del testo del decreto: ecco dunque come un atto dovuto che interessava migliaia di persone è entrato in vigore con tale ritardo.
Va peraltro detto che tale ritardo in realtà non ha preoccupato granché tutti gli attori della commedia: non certo le Regioni e le aziende sanitarie che probabilmente temono gli effetti finanziari della stabilizzazione e che, se fosse stato per loro, sicuramente non la avrebbero voluta: ma alla fine neanche i diretti interessati perché una volta ottenuta la norma legislativa e la contestuale proroga del contratto ritenevano di essere in possesso di un assegno post datato da mettere all’incasso al momento opportuno. Ora non ci sono più alibi: la legge c’è, il decreto pure. i posti vacanti nelle dotazioni organiche non dovrebbero certo mancare, la necessità e le esigenze assistenziali di continuare ad avvalersi di questi dipendenti è fuori discussione, altrimenti tutti i contratti di questi anni dovrebbero finire alla Corte dei conti.
Quello di cui occorre verificare la sussistenza è la volontà dei direttori generali (e, ovviamente, delle rispettive Regioni) di attuare davvero il percorso. Infatti uno dei punti più controversi della legge 125 è che le amministrazioni «possono» bandire concorsi riservati. Inoltre, la legge stessa ricorda una serie di vincoli finanziari particolarmente pressanti. A tale proposito è del tutto peculiare la situazione delle Regioni in piano di rientro. La circolare n. 5/2013 del Dipartimento della Funzione pubblica ha chiarito che per queste assunzioni si può fare ricorso al 50% delle risorse assunzionali. La circolare ha precisato molti altri aspetti tra i quali spicca per chiarezza la ricostruzione del sistema del reclutamento (ordinario e speciale, quest’ultimo a sua volta definito transitorio e ordinario). Alcuni punti del Dpcm meritano una segnalazione: sono interessati alla stabilizzazione i dirigenti sanitari (unici in tutto il pubblico impiego), mentre dal percorso sono esclusi i dirigenti dei ruoli professionale, tecnico e amministrativo, c’è una disposizione specifica per i Lsu, sono previste deroghe al possesso della specializzazione per il pronto soccorso e, infine, va ricordato che in deroga a quanto stabilito dalla legge – il decreto afferma che i tre anni possono essere prestati «anche presso enti del medesimo ambito regionale diversi da quello che indice la procedura» – e, infine, è sparita la prescrizione che le assunzioni sono «di norma» a part time.
Dunque, ricapitolando: qualora una azienda sanitaria intenda procedere a stabilizzare dei propri dipendenti a tempo determinato deve preliminarmente manifestare tale intendimento nel Piano del fabbisogno di cui agli artt. 6, comma 4 e 35. comma 4 del Dlgs 165/2001 che è l’atto strategico sotteso alle assunzioni. Effettuata la ricognizione di coloro che risultano in possesso dei requisiti e verificate puntualmente le compatibilità finanziarie, si può procedere con la pubblicazione di un bando di concorso che è interamente riservato ai soggetti ricognizzati. Contestualmente possono essere prorogati i contratti di coloro che hanno i requisiti. Riguardo all’espletamento non c’è in realtà molto da dire in quanto si tratta di concorsi normali che seguono le regole contenute nel Dpr 483/1997 (per le aree dirigenziali) e 220/2001 (per il comparto). Una volta terminati i lavori concorsuali e approvata la graduatoria si procede alla dichiarazione dei vincitori. A una prima valutazione poteva sembrare che questi concorsi – in quanto interamente riservati – non dovessero generare idonei ma in realtà potrebbe verificarsi il caso che una azienda bandisca il concorso per meno posti di quanti siano i soggetti con i requisiti: e allora si deve concludere che la graduatoria finale conterrà vincitori e idonei che potranno essere chiamati in sostituzione di un vincitore (dice il decreto «in ambito regionale ….. a valere sulle predette risorse, dunque non per altri posti») ma non nell’arco della durata «normale» della graduatoria, che si ricorda è triennale, bensì per un quadriennio.
I vincitori devono stipulare un nuovo contratto di lavoro che deve prevedere necessariamente – anche se irragionevolmente – il periodo di prova. Si ritiene che le ferie maturate nel precedente rapporto non possono essere trascinate nel nuovo rapporto.
Stefano Simonetti – Il Sole 24 Ore sanità – 7 luglio 2015