L’Italia evita in extremis la procedura d’infrazione europea sul debito. «Il governo ha rispettato le tre condizioni che avevamo posto», spiega il commissario Ue agli Affari economici al termine della riunione del collegio guidato da Jean-Claude Juncker. Non si tratta di accordo o di braccio di ferro politico vinto dal gabinetto gialloverde, quanto del fatto che il governo Conte, pur avendo escluso per settimane qualsiasi intervento sui conti, alla fine ha messo mano al portafoglio e si è anche impegnato sul rispetto delle regole europee per il prossimo anno. Promessa cruciale quella sul futuro, visto che il Paese resta un osservato speciale nell’Unione.
«Oggi incassiamo un risultato importante, l’Europa riconosce la nostra serietà», brindava il premier Conte. «Abbiamo evitato la procedura senza una manovra correttiva», aggiungeva il ministro Tria. Giochi di parole in quanto nominalmente la manovra non c’è stata, ma il decisivo assestamento di bilancio di lunedì scorso le assomiglia molto. Come testimonia il documento con il quale la Commissione ha abrogato l’iter che avrebbe portato alla procedura: il governo ha messo in campo una correzione del deficit strutturale pari a 8,2 miliardi, cifra superiore allo 0,4% del Pil. Lo ha fatto destinando al risanamento dei conti, dunque sottraendole da altre spese, le entrate superiori al previsto e le minori spese da reddito di cittadinanza e quota 100. Inoltre su esplicita richiesta della Commissione Ue sono stati congelati 1,5 miliardi a garanzia del raggiungimento degli obiettivi. Così il deficit nominale scenderà a quel 2,04% concordato a dicembre, unico modo per contenere la corsa del debito pubblico e per coprire il buco nel bilancio del 2018 e del 2019.
Eppure la trattativa fino a poche ore dalla decisione Ue è rimasta in bilico. La Commissione infatti nella giornata di martedì, mentre Conte era a Bruxelles per il summit sulle nomine, ha inseguito il premier e Tria pretendendo quella lettera sui conti del 2020 promessa ma mai inviata. E infine arrivata sui tavoli europei solo in tarda serata. Quell’impegno a «rispettare il Patto di stabilità anche nel 2020» firmato solennemente da Conte e Tria è stato fondamentale per il via libera finale, e di fatto segna la resa di Salvini e Di Maio di fronte alle richieste iniziali della Commissione. E infatti i mercati brindano: spread sotto quota 200 e Borsa di Milano che chiude a +2,4%.
Senza correzione, l’Italia avrebbe subito una pesante procedura per non avere tagliato il debito nel 2018-2019 e per la deriva del 2020, anno in cui il deficit avrebbe sfondato il tetto di Maastricht volando al 3,5% e il debito avrebbe superato il 135% del Pil. Un rischio per la tenuta della zona euro, tanto più se si considera che il nostro è il Paese con la peggiore crescita del continente. Una situazione che gli europei imputano in larga parte alle politiche di Salvini e Di Maio.
Per evitare il commissariamento, Bruxelles chiedeva un taglio di 9 miliardi per compensare il buco del biennio in corso e di indicare le misure con cui l’anno prossimo verranno compensati mancato aumento dell’Iva e avvio della flat tax. A Osaka è arrivato il compromesso ben più vicino alle richieste di Bruxelles: 8,2 miliardi e una lettera di impegni meno dettagliata. Per ora basta così, è sufficiente a non umiliare i gialloverdi pur salvaguardando la credibilità delle regole Ue. Ma attenzione, perché il primo novembre si insedierà il nuovo esecutivo comunitario guidato da Ursula von der Leyen, probabilmente ben più duro di quello gestito in questi cinque anni con grande flessibilità da Juncker.
Ma sarà autunno caldo con l’Ue e nel governo la sfida è solo rinviata
“Si valuterà la conformità del documento Programmatico di bilancio 2020 al patto di stabilità e crescita”. Questa frase scritta nero su bianco sulla nota emessa ieri dalla Commissione europea fa capire quanto sia fragile e temporanea la tregua concessa all’Italia sui conti pubblici. Più che promosso, il governo è stato rimandato all’autunno. Quando appunto dovrà preparare la nuova legge di Bilancio. Quando i sogni di gloria fiscale coltivati da Matteo Salvini dovranno misurarsi con la nuova realtà che si sta insediando ai vertici dell’Unione europea. Un ottobre “caldo”. Durante il quale si effettuerà il vero test sulla sopravvivenza di questa maggioranza. Con la partita sulle nomine per i cosiddetti cinque “top jobs” e sulla procedura d’infrazione, il presidente del consiglio Conte al momento incassa infatti un solo risultato concreto: l’ipotesi di una crisi di governo e delle elezioni politiche a settembre si allontana. Si tratta in realtà di un obiettivo conseguito soprattutto grazie al ruolo svolto negli ultimi giorni dal Quirinale che, rispetto alla trattativa con Bruxelles, ha pubblicamente garantito sulla tenuta dei nostri conti pubblici. E lo ha fatto nel tentativo di scongiurare una eventuale situazione di stallo proprio in autunno. L’idea di affrontare la prossima sessione di bilancio con un esecutivo dimissionario o nascituro è stata sempre considerata dalla presidenza della Repubblica l’opzione peggiore.
Quello che è successo nell’ultima settimana, però, non rappresenta una soluzione definitiva. Ma, appunto, solo un rinvio. Uno semplice slittamento di quel che sarà il destino delle nostre casse pubbliche, quello del governo e quello della legislatura. Partendo da una premessa: il compito a ottobre sarà persino più complicato di quello affrontato fino ad ora. In primo luogo perché la maggioranza gialloverde si troverà dinanzi una Commissione ben più rigorista di quella uscente. L’Italia ha ottenuto ben poco per quanto riguarda la composizione degli assetti dell’Unione. La promessa di “cambiamento” dell’Europa in senso sovranista si è infatti infranta proprio l’altro ieri. L’asse franco-tedesco continua a guidare l’Unione. Prima lo faceva coinvolgendo almeno Italia e Gran Bretagna. Adesso no. La futura presidente Ursula von der Leyen è decisamente più “austera” in economia di quanto non lo sarebbe stato il socialista olandese Timmermans. L’unica poltrona di rilievo riservata a un italiano, la presidenza dell’Europarlamento, è stata assegnata a David Sassoli, del Partito Democratico. Tutti fattori che rendono ancora più erto il percorso autunnale della manovra.
Ottobre, dunque, – come direbbe Eliot – rischia di diventare “il mese più crudele” per l’alleanza gialloverde. Anche perché, al di là delle difficoltà sul piano economico, questa coalizione è perennemente sull’orlo di una crisi. E costantemente appare in campagna elettorale. Sospesa la questione procedura d’infrazione, da oggi torneranno come elementi di frizione la legge sull’autonomia regionale e la costruzione della Tav, la questione Alitalia e la revoca della concessione autostradale ad Atlantia. Salvini cercherà di anticipare la manovra per avere certezze sulla cosiddetta Flat tax. Tutti mattoncini del muro di instabilità costruito dall’alleanza grillo-leghista.
Amplificato da una circostanza messa in evidenza dalle ultime elezioni europee: questa maggioranza aveva provato a costruire un nuovo blocco sociale fondandolo sull’unione dei contrari. Mettere insieme l’elettorato grillino e quello leghista sembrava il mezzo per cogliere consenso in ogni direzione – a destra e a sinistra – e realizzare obiettivi anche se tra loro contraddittori. Adesso sta accadendo l’opposto. Il consenso va solo a destra e l’unione dei contrari sta inevitabilmente producendo paralisi e non soluzioni. Le antitesi, del resto, da sole non producono sintesi. Il segmento teoricamente più rilevante dell’asse M5S-Lega, ossia quello grillino, continua allora a perdere consensi e mostra al Paese l’immagine di una forza decadente. O, come dice Beppe Grillo, il Movimento si sta rivelando “biodegradabile”. I leghisti aumentano il loro peso e il premier Conte non nasconde – nemmeno in pubblico – la sua insofferenza nei confronti dell’egemonia praticata da Salvini sulla maggioranza.
L’insieme di queste incoerenze e di questi scontri si concentrerà tra tre mesi. L’ircocervo gialloverde affronterà il suo test finale. Quando, appunto, l’esecutivo sarà chiamato a conciliare nella legge di Bilancio “la conformità al patto di stabilità e crescita” – come avverte la Commissione – con la riduzione delle tasse – come reclama il leader leghista -. Ma anche perché subito dopo la pausa estiva, la politica si reimmergerà comunque nella campagna elettorale. Tra la fine dell’anno e i primi mesi del 2020 si voterà in tre importanti regioni: Emilia Romagna, Veneto e Toscana. Le regioni “rosse” sono diventate ormai l’obiettivo primario del Carroccio. Un vero e proprio ponte che conduce alle elezioni nazionali. E forse non è un caso che il governatore ligure, Giovanni Toti, una sorta di proconsole salviniano dentro Forza Italia, abbia sostanzialmente deciso di rompere con Berlusconi. È il primo passo per affiancare alla Lega una gamba di centro, sebbene dalle dimensioni modeste.
Il prossimo, insomma, potrebbe essere un altro anno elettorale. Per le regionali e non solo. Con una certezza: Salvini ha comunque la necessità di materializzare in Parlamento il suo consenso. Non solo inseguendo l’aspirazione personale della premiership. Ma anche perché vorrà essere lui, nel 2022, a dare le carte sul tavolo in cui si sceglierà il nuovo presidente della Repubblica.
Il presidente Sergio Mattarella ha garantito sulla tenuta dei nostri conti pubblici, con l’obiettivo di evitare la procedura e una crisi prima della sessione di bilancio
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