Due miliardi di potenziali consumatori nel mondo, un giro d’affari di 500 miliardi di euro, una crescita esponenziale del 140% dal 2005 a oggi.
Sono i numeri del mercato dei prodotti halal (lecito in arabo): generi alimentari, mangimi, nutraceutici, farmaci e cosmetici prodotti e distribuiti seguendo le prescrizioni alimentari islamiche. Un mercato appetitoso, un eldorado, un business anticiclico.
Halal vende di più e spesso a prezzi maggiorati. Eppure, c’è qualcosa che non torna. Anzi, che torna al mittente. Non basta infatti un logo per conquistare il consumatore. E, più importante, per passare alcune dogane. Pacchi che ricevono bei «pacchi»: merci italiane, francesi, tedesche, rifiutate alle dogane di Dubai, Singapore, Malaysia e così via.
Altri che alla frontiera non ci arrivano nemmeno, snobbati dai distributori. Le conseguenze di certificazioni sbagliate o addirittura false arrivano a multe salate, ritiro della merce dal mercato, e pubblicazioni sui media. Un danno di immagine, oltre che commerciale. Effetto dell’improvvisazione con cui operano alcuni dei così detti centri di certificazione halal nostrani.
«Non solo italiani. Ma non si tratta sempre di mala fede o di certificazioni false», spiega Annamaria Tiozzo, consulente di marketing islamico e di certificazioni religiose. «Il mercato, si sa, è in crescita. Accanto a istituzioni religiose che operano da anni in questo settore, sono sorti, a decine, centri improvvisati, islamici e non. Ma se, in teoria, qualsiasi musulmano adulto e praticante può rassicurarci sullo stato halal di un alimento, questo non significa che a livello internazionale queste dichiarazioni possano essere spese come certificazioni halal. Ogni Stato ha norme diverse in proposito: orientamenti religiosi, norme doganali, leggi a tutela del consumatore, leggi governative. Stante lo sforzo di numerose associazioni e alleanze, a oggi non abbiamo ancora degli standard internazionali di certificazione validi per tutti i Paesi, in particolare per quelli della Conferenza islamica (OIC). Addentrarsi nella giungla di tutte queste normative, per altro in continua evoluzione, e in quella degli accreditamenti dei centri di certificazione, richiede una formazione continua e molta preparazione».
Che cosa intende per accreditamento?
«Non tutti i Paesi islamici richiedono una certificazione halal delle merci; la maggior parte di essi la richiede solo per le carni. Alcuni per tutti i generi alimentari. Qualcuno comincia a chiederla per farmaci e cosmetici. Tuttavia, non basta che un qualsiasi centro islamico (perché islamico deve essere! In quanto parliamo di una certificazione religiosa) apponga un suo logo. Il centro deve essere accreditato dalle autorità del mercato di destinazione della merce. Ogni Paese richiede requisiti diversi per l’accreditamento degli enti».
Ad esempio?
«Essere un centro islamico, senza fine di lucro, non essere una ditta commerciale, fare attività sociali, disporre di un certo numero di auditor, aver superato dei corsi, esistere da un dato numero di anni, avere solo auditor musulmani eccetera».
Ma questi accreditamenti sono verificabili?
«Naturalmente, ma le aziende in genere non lo sanno. Ed ecco un fiorire di favole, accreditamenti inventati o rilasciati da istituzioni o persone non titolate a rilasciarli, e perciò inutili. Riporto un caso di un console onorario che mi telefonò dopo aver ricevuto una richiesta di accreditamento per emettere certificazioni halal. E la lista continua con camere di commercio, associazioni di amicizia e così via. Tutti enti che possono di certo essere utili a far rete, a commercializzare questi prodotti, ma non certo ad accreditarli».
Insomma, è la solita storia del chi controlla il controllore?
«Sì, questo è, in effetti, un problema. In Italia non esiste una normativa al riguardo, e d’altra parte, temo, si sfiorerebbe l’ingerenza nelle materie religiose. Ad oggi solo il Codex Alimentarius ci da una definizione di cosa sia halal. Ma mancano gli organi di controllo, in particolare quando si esce dal ristretto ambito delle carni».
Cosa è allora la certificazione halal per lo Stato italiano, e come è possibile tutelare le aziende?
«Si può configurare come una certificazione volontaria di prodotto. Si potrebbe partire sicuramente dalla tutela del consumatore, ma il percorso mi sembra ancora lungo. Un passo avanti si era fatto recentemente con un’intesa interministeriale, se non altro dal punto di vista della presa di coscienza del fenomeno a un livello commerciale e sociale. In assenza di una regolamentazione, come pure di una credibile associazione consumatori che se ne occupi, utenti finali ed aziende sono lasciati a se stessi. Sarebbe auspicabile l’istituzione di una commissione di studio, strada seguita da altri Paesi europei».
Quanto costa certificare halal un prodotto e che durata ha la certificazione?
«Il certificato dura in genere uno o due anni. Il costo dipende dal tipo di certificato: di sito produttivo, o di prodotto (il secondo non può esistere senza il primo, ma il primo non basta per dire che tutta la produzione sia halal); altre variabili sono l’ente di certificazione, la sua nazionalità, e quindi il costo degli audit, le spese per i test di laboratorio se richiesti,la competenza merceologica dell’ ente, la sua importanza a livello di riconoscimento del consumatore e, naturalmente, i suoi accreditamenti».
Accade davvero che la merce sia rifiutata alla dogana? Quali gli errori più comuni ?
«Sì, accade. L’errore più comune (escludendo le ovvie certificazioni false) è l’esagerazione, il voler creare prodotti di cui nessuno sente il bisogno, o certificare a priori senza una reale necessità, e a volte opportunità, di farlo. Un esempio? La certificazione halal di birre e spumanti analcolici che sembra andare cosi di moda in Italia, quando tutto il mondo islamico esprime e pubblica pareri contrari a questa pratica».
Parrebbe quasi che sia l’industria halal a dettare le regole alimentari ….catastrofe?
«No, assolutamente. Sono un consulente e quando mi si interroga è spesso, purtroppo, per affrontare punti di criticità. Ma la mia percezione del fenomeno è molto positiva. Perché è un mercato straordinariamente in crescita, certo, ma non solo. L’ halal, spostando il discorso dal sociale all’economico, è riuscito dove molti altri strumenti avevano fallito: far parlare dei bisogni del consumatore islamico, dei suoi gusti, della sua identità. Avvicinare alla sua cultura».
Ilsole24ore.com – 20 dicembre 2011