di Sergio Rizzo. Graziano Delrio dice che per portare a casa i risultati non basta far passare un provvedimento. Ma «bisogna stare sul pezzo». Vale anche per l’abolizione delle Province elettive, trasformate in enti di area vasta da una legge nota ormai con il suo nome. Dovrebbero essere poco più che agenzie nominate dai sindaci, in attesa che la riforma costituzionale faccia sparire definitivamente la parola «Province» dalla nostra carta fondamentale. Non resta che aspettare giovedì 11 settembre, data per cui a sentire il sottosegretario alla presidenza («il ministro Maria Carmela Lanzetta me l’ha promesso e io sto lì tutti i giorni a sollecitare») saranno partoriti i famosi decreti attuativi. Un parto non proprio semplicissimo, se ci sono voluti cinque mesi dall’approvazione della legge per sfornarli.
Nel frattempo una società del Tesoro e della Banca d’Italia, la Sose, ha fatto con il centro studi bolognese Nomisma una simulazione del personale e dei costi necessari a questi enti di area vasta. Arrivando alla conclusione che dei 47.862 dipendenti provinciali censiti nel 2010 nelle sole quindici Regioni a statuto ordinario basterebbero, per assolvere le funzioni demandate loro dalla legge Delrio, 27.269: ipotizzando che la situazione rimanga tale e quale a quella attuale nelle dieci Province di cui è previsto il passaggio a città metropolitane. Un elenco che oltre a Roma, Milano, Bologna, Firenze, Bari, Genova, Venezia, Napoli e Torino include anche (curiosamente) Reggio Calabria per un numero totale di 13.392 dipendenti.
Tenendo presente che il fabbisogno di personale in tutte le altre è valutato in 13.611 unità, più le 266 ritenute ottimali per le tre ex Province qualificate come «montane», ovvero Sondrio, Belluno e Verbano-Cusio-Ossola, il risultato è che ci sarebbero almeno 20.593 persone di troppo. E senza considerare l’impatto della riforma nelle cinque Regioni a statuto autonomistico come Sicilia, Sardegna, Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta: ancora tutto da valutare. Le prime tre dovranno adeguarsi entro un anno a partire dall’8 aprile scorso. Per le ultime due la legge Delrio sarà applicabile solo «compatibilmente con le norme dei rispettivi statuti». Il che lascia, com’è ovvio, margini enormi di sopravvivenza del vecchio sistema. Basta dire che mentre la legge si discuteva in Parlamento la Provincia di Udine andava tranquillamente alle elezioni senza porsi minimamente il problema: il consiglio provinciale scade nell’aprile 2018.
Almeno 20.593 persone da licenziare, dunque? Nemmeno per idea. «Da riallocare», precisa lo studio di Sose e Nomisma in perfetta sintonia con quanto a suo tempo precisato dal governo, «fra Regioni e Comuni». E sono numeri che oltre a dare l’idea delle dimensioni del taglio inferto alle vecchie Province, fanno anche capire la portata delle clientele locali. Per 2.955 esuberi nelle Province lombarde, (Milano a parte), ce ne sono 1.620 in quelle calabresi (Reggio Calabria a parte). Un esubero ogni 3.364 abitanti in Lombardia, uno ogni 1.208 in Calabria. Ma anche uno ogni 1.201 residenti nelle Marche, ogni 1.551 nel Molise, ogni 1.621 in Toscana, ogni 2.060 in Emilia Romagna. Sorprende il dato del Lazio, dove c’è un esubero ogni 5.746 abitanti. Ma è un numero evidentemente collegato al peso nella Regione della Provincia di Roma, che ha 3.106 dipendenti: cifra paragonabile a quella del personale dell’intera Regione Lombardia.
Va anche detto che la Provincia di Milano compila ogni mese 1.889 buste paga. Con un rapporto di un dipendente provinciale ogni 1.681 abitanti, inferiore del 17 per cento appena alla Provincia di Roma, che ne ha uno ogni 1.391 residenti. Divario in parte giustificabile con il fatto che la superficie romana è più che tripla rispetto a quella milanese. Ciò che invece nessun parametro fisico può spiegare è come mai la Provincia di Reggio Calabria abbia in proporzione ai suoi abitanti un numero di dipendenti dieci volte superiore alla Province di Roma o Torino, e addirittura dodici volte a quella di Milano. Sono 1.057, uno ogni 135 abitanti. Circostanza che rafforza ancora di più, se possibile, le legittime perplessità manifestate sulla trasformazione in città metropolitana dagli esperti della spending review.
Meno dipendenti e funzioni ridotte, senza più i vecchi apparati politici significa ovviamente anche minori costi. Prima della riforma la spesa corrente delle quindici Regioni a statuto ordinario ammontava (dato 2010) a 8 miliardi e 58 milioni l’anno. La previsione con il nuovo assetto è di un miliardo 524 milioni; ma sempre senza considerare le famose dieci città metropolitane, le cui uscite correnti sono pari a 2 miliardi 679 milioni. La differenza è quindi pari a 3 miliardi 855 milioni. Ma guai a chiamarlo risparmio. Il rapporto Sose-Nomisma lo definisce: «spesa da ricollocare fra gli altri enti territoriali». Perché c’è pur sempre il personale in esubero. E volete che con questi chiari di luna Regioni e Comuni rinuncino a spartirsi le altre spoglie?
Province, trasferimenti per 30 mila dipendenti. Con l’imminente intesa sulle competenze il personale andrà a Regioni, Comuni e Stato
di Diodato Pirone. Eppur si muove. L’Italia delle Province, uno dei comparti più anchilosati fra quelli dell’immobile moloch della nostra burocrazia, sta per mettersi in moto. Siamo alla vigilia, infatti, (gli addetti ai lavori parlano del 15 settembre come data ultima) della Conferenza Stato-Regioni che sancirà l’accordo definitivo sulle competenze delle Nuove Province o Aree Vaste partorite ad aprile con la riforma Delrio. Un’intesa importante sul piano tecnico e su quello simbolico perché scuoterà migliaia di comode poltrone e metterà a soqquadro centinaia di placidi uffici. Secondo le prime valutazioni, infatti, circa 30 mila dipendenti delle vecchie Province, sui 60 mila totali, lasceranno il loro posto per cambiare “padrone”.
Sia chiaro: nessuno perderà lo stipendio e la ristrutturazione sarà concordata con il sindacato. Ma resta il fatto che da anni un comparto dell’amministrazione pubblica italiana non affrontava una rimescolamento delle carte di questa portata. 130 mila ex provinciali andranno in gran parte alle Regioni (ma forse senza cambiare contratto e senza i ghiotti aumenti di stipendio), qualcuno sarà assorbito dai Comuni, altri torneranno alle Aree Vaste con modalità – come vedremo – diverse da Regione e Regione. E’ possibile infine che qualcuno finisca al ministero del lavoro o ai Tribunali che paiono aver bisogno come il pane di nuovo personale.
E’ importante capire però che la valanga di trasferimenti sarà di portata diversa da Regione a Regione. Perché spetta proprio ai go vernatori regionali definire tutte le competenze delle Aree Vaste. Accade infatti che la Lombardia del leghista Roberto Maroni abbia deciso di assegnare alle amministrazioni targate Delrio ben 164 mate rie di competenza che si aggiungono alle tre più importanti concesse – per tutti gli enti – dalla riforma: manutenzione delle strade; manutenzione delle scuole superiori e pianificazione del territorio (importantissima base dei piani regolatori). Dunque le future Province lombarde saranno meno snelle di quelle della Liguria o della Calabria che invece hanno deciso di provinciali”
I NUOVI EQUILIBRI
A complicare il puzzle c’è poi la riforma del lavoro che, entro l’anno, chiarirà il futuro dei Centri per l’impiego provinciali e del relativo personale che forse finiranno ad una Agenzia Nazionale. «Ma al di là dei singoli aspetti tecnici, sta emergendo che questa riforma avvia un cambiamento generale degli equilibri della pubblica amministrazione italiana e del rapporto fra la politica e il territorio», spiega il sottosegretario Gianclaudio Bressa che assieme al ministro degli Affari Regionali, Maria Carmela Lanzetta, sta seguendo la rifor ma. Del resto la riforma prevede la nascita di 10 Aree Vaste speciali, le Città Metropolitane (da Reggio Calabria a Roma), con l’assegnazione ai sindaci dei principali centri italiani concreti poteri di coordinamento sul territorio.
Poi – se saranno immessi in Senato 21 amministratori comunali. Diffìcile non prevedere nuovi scossoni all’apparato amministrativo. Un esempio? Dall’anno prossimo il sindaco di Roma, che ha già i poteri di Roma Capitale, guiderà de facto anche la Città Metropolitana che comprende oltre 3 milioni di abitanti e avrà poteri e peso su materie delicate come i trasporti che fatalmente peseranno sugli equilibri con la Regione. Il primo banco di prova di questi nuovi pesi politici e territoriali emergerà dalle elezioni per i nuovi consigli provinciali che si terranno fra il 28 settembre e il 12 ottobre.
I consiglieri comunali delle attuali province saranno chiamati ad eleggere fra loro stessi il presidente e i consiglieri ( che non avranno stipendio) delle future Aree Vaste. Si tratterà di organii composti da un minimo di 10 membri per le Aree più piccole ai 24 della Città Metropolitana di Roma. Sulla formazione delle liste c’è già un discreto fermento fra i partiti. I BStelle, ad esempio, sono allarmatissimi: hanno molti voti ma pochi consiglieri comunali e rischiano di restare fuori dai giochi anche se magari controllano Comuni importanti come Parma, Livorno o Civitavecchia (che è anche un porto e dunque sarà uno dei punti strategici della Città metropolitana di Roma). Il Pd, che verosimilmente farà il pieno di presidenti, ha invece il problema opposto: qui e là il partito è dilaniato da spinte campanilistiche che potrebbero portare a liste contrapposte. «Dal mio osservatorio però – chiosa Bressa – vedo soprattutto una spinta positiva ad un nuovo governo del territorio». Vedremo. Prima c’è lo spettacolo inedito di una fetta di burocrazia che torna a remare.
Il Corriere della Sera e Il Messaggero – 3-2 settembre 2014