Le «tre fasce» sono state una delle bandiere dell’ultima riforma della Pubblica amministrazione, quella del 2009 targata Brunetta. Avrebbero imposto di dividere i dipendenti di ogni ente, con l’eccezione di quelli più piccoli, appunto in tre gruppi: i migliori, i mediani e i peggiori. Ai primi sarebbe andato il 50% dei soldi che i «fondi decentrati» (che finanziano il salario accessorio) dedicano alla produttività, ai secondi sarebbe andato l’altro 50% per lasciare a zero i premi per il terzo gruppo.
Il meccanismo ha riempito dibattiti, libri e convegni, ma sarebbe dovuto entrare in vigore al primo rinnovo contrattuale. Qualche mese dopo l’entrata in vigore della riforma, il primo dei tanti decreti anti-crisi ha congelato contratti e buste paga. E il meccanismo è rimasto nel cassetto.
Una delle condizioni per riaccendere la macchina dei contratti pubblici, sia nell’ottica del governo sia in quella dei sindacati, è il ripensamento di quel sistema. Le griglie, è il presupposto, non riuscirebbero ad adattarsi alle situazioni diversificate delle singole amministrazioni, e il tema va riportato nell’ambito della contrattazione. Alla legge, invece, tocca solo fissare i principi generali.
Dovrà muoversi su questi binari il nuovo testo unico del pubblico impiego, che sarà costretto a ottenere anche l’«intesa» con regioni ed enti locali dopo la correzione posta dalla Corte costituzionale al percorso attuativo della riforma Madia nella sentenza 251/2016. Non solo, perché i sindacati hanno ottenuto anche una sede di «confronto preventivo» sul testo.
Il tempo non è molto, perché il testo deve arrivare in consiglio dei ministri entro febbraio per ottenere il primo via libera, e il sentiero è stretto. L’idea è quella di “smontare” l’architettura rigida pensata nel 2009 senza cancellarne l’obiettivo di fondo, che era quello di superare l’abitudine dei “premi” dati a tutti e utilizzati di fatto come parte aggiuntiva dello stipendio. Sul punto l’accordo è abbastanza generico, come si conviene a un testo scritto con l’obiettivo di ottenere un’intesa politica, e «impegna le parti a individuare nuovi sistemi di valutazione che garantiscano un’adeguata valorizzazione delle professionalità» e a trovare «specifiche misure per la valorizzazione dell’apporto individuale in relazione agli obiettivi di produttività per il soddisfacimento delle esigenze dei cittadini in termini di qualità e tempi di erogazione dei servizi». Tradotto, significa che gli obiettivi dovrebbero puntare più agli utenti che all’organizzazione interna, ma toccherà ai contratti fissarli in modo puntuale.
Il Sole 24 Ore – 1 dicembre 2016