Dietro al dibattito che periodicamente esplode sull’articolo 18 (licenziamenti) e sul taglio delle pensioni alte non ci sono solo ragioni economiche che hanno a che fare col rilancio della crescita e il risanamento dei conti pubblici. Ogni volta che si parla di aggiustamenti del mercato del lavoro e del sistema previdenziale riaffiora un conflitto generazionale.
Basta vedere lo scontro tra lavoratori anziani e giovani, tra pensionati e precari che divampa sul web, nei blog e nei commenti agli articoli, con argomenti che richiamano le categorie della giustizia, della solidarietà, della morale, come per esempio negli oltre 600 commenti arrivati sul sito del Corriere all’intervista di domenica scorsa con il ministro del Lavoro dove Giuliano Poletti si dice favorevole a un prelievo sulle pensioni elevate.
Spesa sociale
Come ha scritto Mauro Marè su queste colonne il 13 maggio, «in assenza di una crescita sostenuta del reddito, la distribuzione delle risorse sarà sempre più squilibrata a svantaggio dei giovani. Ciò potrebbe determinare un conflitto generazionale sulla ripartizione della spesa sociale e del carico fiscale tra classi di età e, di conseguenza, minacciare l’intervento pubblico così come lo abbiamo conosciuto». Gli scontri sull’articolo 18 e sulle pensioni sono la spia della crisi dello Stato sociale, nato in un contesto profondamente diverso. Prendiamo le pensioni. Quando nel 1969 fu introdotto il sistema di calcolo «retributivo», nessuno metteva in discussione che la pensione fosse un «salario differito», che cioè il sistema dovesse garantire a chi smetteva di lavorare un assegno di importo vicino a quello delle ultime retribuzioni. In una società in crescita, con un prodotto interno lordo che dal 1961 al 1973 era aumentato in media annua del 5% e il tasso di fecondità era di due figli e mezzo per donna, la pensione come continuazione del salario era ritenuta una conquista sociale e un frutto dovuto del Welfare. Questo sistema entrò gradualmente in crisi col rallentamento dell’economia e l’invecchiamento della popolazione, finché nel 1995 la riforma Dini non solo tagliò la dinamica della spesa, che altrimenti avrebbe fatto saltare il sistema, ma, introducendo il calcolo «contributivo», cambiò il concetto stesso di pensione. Che da «salario differito» divenne la «restituzione di quanto versato durante tutta la vita lavorativa», opportunamente rivalutato. Così fu stabilito per tutti coloro che cominciavano a lavorare dal 1996.
La riforma Dini
Cedendo ai sindacati, il governo Dini salvò dal nuovo sistema buona parte dei lavoratori in attività, cioè tutti quelli che avevano almeno 18 anni di servizio, ai quali fu garantito di andare in pensione col vecchio e vantaggioso metodo retributivo. Solo per i lavoratori giovani, quelli in attività da meno di 18 anni, si introdusse il sistema «misto pro rata», cioè la pensione calcolata col retributivo per i versamenti fino al 31 dicembre 1995 e col contributivo per i versamenti successivi. Pro-rata che la riforma Fornero ha esteso a tutti dal 2012, cioè 17 anni dopo la Dini, quando ormai era troppo tardi perché la gran parte dei lavoratori salvati nel ‘95 era già andata in pensione.
Risultato: poiché una cosa non è mai cambiata, cioè che le pensioni si pagano con i contributi prelevati ai lavoratori, i giovani pagano oggi le pensioni — il 90% delle quali liquidate interamente col retributivo — secondo il criterio del «salario differito» mentre loro riceveranno «quanto hanno versato in e tutta la vita lavorativa», che tra l’altro — e qui ci agganciamo all’altro fattore di conflitto generazionale — è diventata più precaria. Ci si può allora meravigliare se sul web c’è chi arriva a dire: «allora fatemi uscire dall’Inps e decido io come farmi la pensione»?
Nel 2001 la commissione governativa sulla spesa previdenziale presieduta da Alberto Brambilla mise a confronto la spesa per le pensioni liquidate col retributivo coi versamenti contributivi sottostanti e scoprì che in media tutte le categorie beneficiavano di alcuni anni di pensione non coperti da versamenti, da un minimo di 8 anni per i dipendenti privati ai 20 di artigiani e commercianti (che allora pagavano contributi irrisori), passando per i 10 dei dipendenti pubblici. Del resto, basta pensare a tutte le baby pensioni degli statali che potevano ritirarsi dopo 19 anni e mezzo (14 e mezzo se donna con figli) e agli scatti di stipendio a fine carriera per avere una pensione più alta, per capire come in media — ripetiamo, in media — ci sia nelle pensioni in pagamento un di più rispetto a quanto versato (senza contare gli 8,6 milioni di pensioni di natura assistenziale ricordati ieri dallo stesso Brambilla sul Corriere ). Un di più pienamente legittimo secondo le regole vigenti fino al 1995, un “regalo” se visto con gli occhi di chi ha cominciato a lavorare dopo.
Operazione verità
Di qui lo scontro di interessi tra coloro che beneficiano del «retributivo», invocano i diritti acquisiti e il contratto sociale da non violare retroattivamente e i giovani che non capiscono perché devono continuare a pagare a costoro un di più che essi non avranno mai e che intanto riduce i salari netti. La solidarietà intergenerazionale, che è alla base della previdenza pubblica, entra così in crisi perché appare alle nuove generazioni a senso unico. Tanto più in uno scenario dove le incertezze aumentano anche sul mercato del lavoro, con la messa in discussione dell’articolo 18 per i nuovi assunti, che di fatto già non lo hanno più, visto che solo il 16% di chi trova un lavoro viene preso con un contratto a tempo indeterminato (e di questi sono tutelati dai licenziamenti senza giusta causa solo quelli che lavorano nelle aziende con più di 15 dipendenti). Eliminarlo del tutto solo per i neo assunti, come per esempio propone Ncd, non farebbe quindi che approfondire il solco tra insiders (i lavoratori anziani) e outsiders (giovani). Sul lavoro come è già avvenuto nella previdenza. Ma lavoro e pensione sono le due facce di una stessa medaglia, soprattutto nel contributivo. Più si è precari meno si versa e meno si avrà di pensione. Non solo. Carriere lavorative povere e discontinue rendono difficile anche la costruzione della previdenza complementare che, quando fu fatta la riforma Dini, si disse appunto avrebbe compensato l’impoverimento degli assegni rispetto a quelli calcolati col retributivo. Promesse mancate.
In questa situazione, e con i governi sempre a caccia di entrate, c’è poco da stupirsi del fiorire e rifiorire di manovre a carico delle pensioni alte. Ma il blocco delle indicizzazioni e i contributi di solidarietà, già applicati da anni, non sono che tagli lineari: una scorciatoia scelta perché sarebbe troppo complicato ricostruire pensione per pensione se e di quanto l’importo sia superiore a quello che si avrebbe applicando il contributivo. Senza considerare che probabilmente si scoprirebbe che il «regalo» maggiore accordato dal retributivo sta non nelle pensioni alte, sostenute da contributi adeguati e da un tasso di rendimento che progressivamente si dimezzava (oltre che di un aliquota marginale Irpef del 41% al quale si aggiunge appunto il blocco delle indicizzazioni e il contributo di solidarietà sugli importi superiori a 90mila euro), ma in quelle basse (spesso prive dei contributi minimi) e medie (baby pensionati) e in quelle d’oro di cui gode la classe politica. Ora, se davvero il governo volesse riequilibrare la situazione, dovrebbe avere il coraggio di questa operazione verità con l’opinione pubblica. Oppure, se non si può fare, dirlo e rinunciare a scorciatoie che, magari in nome delle migliori intenzioni, rischiano di creare nuove ingiustizie.
Enrico Marro – Il Corriere della Sera – 21 agosto 2014