Paolo Rumiz. L’hanno trovata, nella pancia della pianura, più di quattro secoli dopo, la faglia madre del terremoto che ha fatto entrare il Po nel suo letto attuale. Che lo ha spostato di 40 km sul ramo principale del delta. Era il 17 novembre del 1570 e la botta, ben documentata dai contemporanei, seminò il panico a Ferrara, provocando morte e distruzione.
Ma il danno più grave fu che il fiume abbandonò rapidamente la città degli Estensi privandola del suo secolare ruolo portuale. Fino ad allora il braccio principale del Po aveva tagliato in diagonale la pianura dal meandro di Stellata (confluenza col Panaro) fino alle grandi dune a Nord di Ravenna. Dopo il sisma, nulla fu più come prima e l’acqua prese a incanalarsi nel ramo di Venezia, fino ad allora marginale nell’immensità del Delta.
Questo del 1570 è, da oggi, il terremoto più antico a livello mondiale di cui si sia riusciti a risalire alla forma della frattura in profondità e al suo meccanismo di rottura, rileggendo matematicamente le testimonianze d’epoca sui danni provocati. Del lavoro, portato a termine grazie a un “algoritmo genetico” da due sismologi dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e di geofisica Sperimentale, Livio Sirovich e Franco Pettenati, ha dato notizia una delle riviste scientifiche più attendibili del Pianeta, il Journal of Geophysical Research, che con un comunicato stampa ha pubblicizzato i calcoli e le spiegazioni dell’Ogs, compresa l’appendice di carattere storico fornita dai due ricercatori, fatto del tutto inusuale nel panorama scientifico statunitense.
“Fù detto dopo ancor per gli Munari (mugnai) che mentre trete (avvenne) questo quarto terremoto (la quarta scossa, che fu la più forte) il Po gonfiette e fermette il corso suo e tanto crescette l’acqua che era a pari delle rive, e dopo cessato il terremoto calete l’acqua al basso con tanta velocità che quasi tutti li molini che erano alla Stellata nel Po se spicorono dai loro pali dove erano attaccati”. All’origine di tutto sta questo documento dell’epoca, “Memoria de’ gran Terremoti, e Ruine causate da essi nella cità di Ferrara l’anno 1570”, la cui trascrizione settecentesca è stata rinvenuta alcuni anni fa dalla storica della sismologa Emanuela Guidoboni negli archivi della Biblioteca comunale ariostea di Ferrara.
Che il terremoto del 1570 e lo spostamento del Po potessero essere collegati tra loro, era già stato ipotizzato nel 2003 dal geologo Pierfrancesco Burrato, sulla base dello stesso manoscritto e della geologia della regione. Un innalzamento del letto — oggi si sa che potrebbe essere stato anche di soli 10-20 centimetri — poteva aver rallentato e impaludato momentaneamente il fiume prima di fargli riprendere il corso con una piccola onda di piena. In fondo, era da millenni che Po subiva spostamenti verso Nord per via del lento sollevamento dell’Appennino al di sotto delle alluvioni. A Sud dell’attuale corso del fiume, la pianura è segnata da numerosi meandri abbandonati e in secca, come quelli tra Guastalla e Ferrara, ricchi di manufatti antichissimi legati al commercio fluviale.
In questo quadro “errabondo” del Po, i terremoti, assieme alle grandi piene (la più famosa quella che generò la cosiddetta “Rotta di Ficarolo” nel 1152), diventano eventi di rottura di un processo lento, millimetrico, in atto da tempi immemorabili. È la stessa spinta dell’Appennino che ha provocato il doppio sisma del maggio 2012 tra Mirandola e Ferrara e che fa ballare la pianura da sempre. Nel 1117, tanto per dare un’idea, ci fu un terremoto che, secondo un manoscritto trovato in Germania, gonfiò il Po al punto da “formare un arco” fra cielo e terra, “finché l’acqua ripiombò nel suo alveo con un rumore così grande che si sentì per miglia”.
È certo che già prima del terremoto in questione gli Estensi vivessero con allarme una lenta perdita di portata del corso principale sotto le mura di Ferrara e, a causa di questa emorragia, avessero intrapreso, proprio alla vigilia del sisma, importanti lavori di dragaggio. Altrettanto certo è che nel 1580, dieci anni dopo il botto, il corso del fiume aveva già abbandonato la città, decretandone la decadenza, come certifica l’iniziativa di papa Gregorio XIII di far dipingere due mappe (oggi nella Galleria delle carte geografiche dei Musei vaticani), una col nuovo corso del Po e una con il suo tracciato precedente.
Per costruire solidamente il nesso fra sisma e trasloco del fiume a partire dal 1570 bisognava individuare la faglia. Una base di partenza esisteva, ed erano i rapporti dell’epoca sui danni: resoconti immediati di ambasciatori e relazioni diaristiche manoscritte di testimoni diretti, di cui le più importanti sono i tre libri sul terremoto pubblicati in ebraico dal medico ferrarese Azaria Min Haadumim e le testimonianze del grande architetto Pirro Ligorio, successore di Michelangelo alla fabbrica di S. Pietro.
Partendo da qui, si era già arrivati a individuare la distribuzione dei danni nella regione, classificati in intensità tipo Mercalli. È partendo da questa banca dati, curata dall’Ingv, che oggi si è trovata la frattura profonda che riproduce al meglio i danni del 1570. Sirovich e Pettenati ci sono riusciti ipotizzando 4000 faglie possibili e poi altre ancora, fino a trovare la migliore in assoluto: un piano inclinato verso sud-sud-ovest lungo il quale l’Appennino da sotto alle alluvioni risale verso nord-nord-est nell’area fra Rovigo e Ferrara, e del tutto scollegato dalla linea di rottura del terremoto del maggio 2012.
Padania inquieta dunque, da sempre. E il curioso è che quel terremoto provocò anche i suoi sconvolgimenti politici. Il Papa tuonò che il sisma e la fuga del fiume verso Nord erano stati il castigo di Dio contro gli Estensi, rei di aver accolto gli Ebrei in fuga dalla Spagna. Pochi anni dopo il Vaticano si sarebbe riappropriato di Ferrara.
Ora la guerra per l’acqua divide veneti e lombardi
Al centro delle contese è il lago di Garda, la più grande riserva “dolce” italiana
Jenner Meletti. Basterebbe poco, per fare cessare subito la “guerra dell’acqua”. C’è un quadro di comando, qui all’“Edificio regolatore del lago di Garda” (per tutti, dal 1950 ad oggi,“la diga di Salionze”) chiuso in un armadio di ferro della ditta Rittmeyer. Ci sono 6 piccole leve con le scritte “Aprire”, “Chiudere”. Se apri, l’acqua del lago di Garda si riversa nel Mincio e poi nel Po e dà da bere alle campagne e agli acquedotti. Se chiudi, o sollevi le paratie solo di qualche centimetro, il Garda continua ad essere “la più grande riserva di acqua dolce italiana, il 40% del totale” ma fa arrabbiare un gran pezzo di un’assetata pianura padana. In questi giorni la diga sembra una trincea. Il Veneto chiede l’apertura dei rubinetti, la Comunità del Garda risponde picche, la cabina di regia dell’Autorità di bacino del fiume Po cerca di mediare con un compromesso.
Tutto inizia il 27 luglio, quando con una lettera (protocollo 315579) il “dott.ing.Tiziano Pinato, sezione difesa del suolo” a nome della Giunta regionale del Veneto chiede aiuto all’autorità di bacino, alla Regione Lombardia e alla Comunità del Garda per fronteggiare “la crisi idrica del fiume Po”. “Il fiume versa in uno stato di crisi tale che necessità di rapide azioni di sostegno della portata e tra gli interventi più efficaci viene individuato l’incremento dei deflussi dal lago di Garda”. Il cuneo salino — spiega il dirigente — è in forte risalita e così viene impedita l’irrigazione dei campi. In pericolo è anche “la centrale di potabilizzazione di Ponte Molo”, che serve gli acquedotti dei centri turistici marini del basso Veneto. Non chiede la luna, la Regione dei Serenissimi. Rispetto agli 80 metri cubi al secondo erogati in quei giorni, chiede 25 mc in più fino al 7 agosto e 10 mc in più fino al 16 agosto.
Secca la risposta della Comunità di Garda. «Ho spiegato il mio no — racconta il segretario generale Pierlucio Ceresa — anche alla Cabina di regia. Quei metri cubi in più non risolverebbero la crisi del Po e invece aggraverebbero la situazione del Garda. Io, per salvare il lago, ho anzi proposto di diminuire l’erogazione a 60 metri cubi. Con questo caldo sui 370 chilometri quadrati del Garda c’è un’evaporazione di mezzo centimetro al giorno. Sa cosa significa ? È pari a 4 milioni di metri cubi d’acqua. Abbiamo davanti settimane critiche, non possiamo disperdere la nostra risorsa».
Una delle province venete più colpite è quella di Rovigo. «Il nucleo salino — spiega Giancarlo Mantovani, direttore delle bonifiche Delta del Po e Adige – Po — è già risalito di 15 chilometri, ha superato la statale Romea. Diecimila ettari non sono più irrigabili. Abbiamo perso il primo raccolto di mais, tutto il riso e il secondo raccolto di soia. C’è disperazione, perché non si vedono soluzioni. C’è un’Autorità di bacino che non ha autorità. Per questo già a fine giugno io avevo chiesto lo stato di emergenza. Solo così il potere di decidere passa alla Protezione civile, e si possono aprire quelle paratie che tanti oggi rifiutano di aprire. L’equilibrio del Garda è importante, ma lo sono di più gli acquedotti e i campi che sfamano la gente».
C’è chi non aspetta l’acqua ma la ruba. «Anche da noi, nelle terre dove ancora è possibile irrigare, sono al lavoro i furbetti delle chiaviche. Di notte o di giorno sbarrano con assi o lamiere le canaline e fanno debordare l’acqua. Così allagano i loro campi e tolgono l’acqua a chi magari aspetta il suo turno da una settimana ».
Albicocche marcite sugli alberi. Mucche che producono il 15% di latte in meno. Maiali inappetenti per il caldo. Solo in Lombardia — spiega il presidente regionale della Coldiretti, Ettore Prandini — ci sono stati danni per almeno 200 milioni.
Alla diga di Salionze passano ogni giorno migliaia di ciclisti. Nella schiuma sotto le paratie nuotano le folaghe. «Se alzassimo tutte le barriere — scherzano Patrizio Girardi e Cesare Zane, istruttori idraulici — svuoteremmo il Garda e allagheremmo Mantova ». Via mail arrivano gli ordini dell’Aipo, Agenzia per il Po. “Oggi dovete erogare 80 metri cubi al secondo”. «Secondo i piani previsti — spiega Paolo Boccolo, direttore generale dell’assessorato al territorio della Regione Lombardia — dal primo agosto avremmo dovuto scendere a 65 mc. Assieme all’Autorità del Po e al ministero dell’Ambiente abbiamo deciso di mantenere la quota di 80mc fino al 10 agosto, per dare una mano alle altre regioni, Veneto compreso». Nessun aumento a 105 mc, dunque. «Anche noi abbiamo gli acquedotti, nel Garda. Dobbiamo alimentarli. E milioni di turisti su tutti i laghi». Il cuneo salino sul delta continua a salire. Unica speranza, una perturbazione vera, che possa ricacciare il sale in Adriatico.
Repubblica – 9 agosto 2015